12/21/2015

Natale: alla scoperta di Dio nell'umano

È facile intenerirsi davanti al bimbo nella greppia tra il bue e l'asinello, è  facile anche lasciarsi trasportare dal clima ovattato e sentimentale del Natale.
La Chiesa si prepara quattro settimane prima per questo evento. La società consumistica molto prima e per motivi diametralmente opposti. Soprattutto i secondi, molto velocemente, girano pagina per lasciar posto ad altro.
Ma se Dio si incarna in un uomo per essere vicino all'uomo, lo ha fatto una volta per tutte per poi restare incarnato nella nostra vita.  E allora lasciamo da parte per questa volta Gesù bambini, pastori e Magi; cerchiamo, invece, il Dio incarnato, qui e ora, nelle situazioni pesanti e dolorose della nostra vita.  
Come ho visto Dio incarnarsi nel problema che sto vivendo in questo momento?
Che frutti di esperienza di vita, di crescita umana e spirituale sta portando?
A queste domande abbiamo cercato di rispondere per non fermarci al sentimentalismo natalizio del momento e andare più  in profondità  alla scoperta di quel Dio che si fa concretamente carne ogni giorno.

“Quando la stanchezza arriva e tutto sembra complicato, mi ricentro nel Signore e cerco la preghiera quale momento per riequilibrarmi e per ringraziare. E… ogni volta Lui è lì, pronto ad ascoltarmi, ad accogliermi e ad amarmi. Dio agisce nel profondo del mio animo e attraverso una nostalgia di Lui mi chiama, si fa vivo, e con la sua presenza mi incoraggia a non mollare e a gioire malgrado tutto, perché Lui è con me. Osservo lo spirito del male agire in me nelle pieghe dei miei affanni e delle mie ansie quotidiane, nel mio egoismo, ma Lui è lì silenzioso e pronto ad abbracciarmi quando meno me lo spetto attraverso il sorriso di una persona, le parole di un’amica. Noto lo spirito del male agire nelle persone che incontro e che mi circondano; è difficile talvolta sopportare i comportamenti negativi altrui! Con la presenza del Signore, però, anche questo assume un nuovo aspetto, un nuovo significato e io assieme a Lui trovo la forza di ascoltare, ove possibile, di aiutare e di non permettere agli altri di demolirmi. Ecco, molto spesso il Signore mi aiuta a difendermi e ad avere speranza anche dove sembra che nulla sia possibile. Lui è un balsamo che lenisce le mie e le altrui ferite, un consigliere prezioso che mi suggerisce sempre di guardare alla vita con pienezza, bellezza e gratitudine. Ed è lì che vedo nitida la sua presenza.
Il Signore mi sussurra pensieri di compassione e misericordia nei confronti del prossimo, anche dove sembra che il male sia infiltrato nel profondo dell’essere umano. E così riesco ad andare oltre a ciò che appare bieco cinismo o puro odio.
Nel mio cammino procedo con la convinzione nel cuore di non essere più sola e per questo ringrazio Dio e tutte le persone di fede che, seme dopo seme, hanno contribuito e contribuiscono alla mia progressiva felicità e libertà interiore.”

“L’apice di questo mio nuovo modo di essere e di riconoscere Dio incarnato nella mia vita e nei miei problemi è stato a novembre quando ho sentito, assieme a mio figlio, l'aria del Natale e ho percepito la bellezza, la gioia e la sacralità dell'Avvento.
Non so perché, ma proprio quel giorno mi si è spalancata una porta all'improvviso e da allora ho sentito il mio cuore aprirsi totalmente alla luce, alla gioia interiore, al sorridere alla gente. È stata come una tegola in testa che ha messo in stand by i circuiti della ragionevolezza per lasciar spazio a un amore travolgente che cresceva dentro me, senza più paure. Un miracolo!
Uno stupore sconfinato mi accompagna quando ci penso. Ringrazio il Signore di essere finalmente entrata nella Sua Grazia. Lo  ringrazio della sua premurosa attesa e di accogliermi sempre a braccia aperte nella misericordia. La pace interiore che provo è indescrivibile. La gioia è contagiosa. Le persone si stanno accorgendo di una mia nuova energia: gli abbracci aumentano e con essi i sorrisi.
Da chi mi attacca ho cominciato a difendermi con il cuore e non più con la testa. A eventuali comportamenti scorretti, reagisco semplicemente lasciando affiorare le parole dal cuore e il frutto lo riconosco dall’essere in pace senza bisogno di sentirmi riconosciuta né di sentirmi dire che ho ragione. Il frutto lo vedo anche dai cambiamenti nelle reazioni di mio marito al mio agire: mi porta più rispetto.
Dio si rivela in questa strana armonia in movimento verso una meta che non conosco; scelgo di vivere lo Spirito alla giornata e di organizzarmi la vita a breve termine per gustarmela di più.
Le preghiere della sera con mio figlio si sono trasformate in poesie cantate; ogni sera con parole nuove Gesù ed il Signore non mancano di comparire e di dare significato alla vita: qui c'è Dio.
Oggi mi sento molto amata, di un amore intimo ed autentico... divino!
Per arrivare a questo sentire ho camminato tantissimo e il cammino continuerà con la mano nella mano di Gesù, Cristo Risorto”.

Quando ho un problema la cosa peggiore è viverlo da sola; la possibilità di condividerlo con qualcuno, anche se non me lo risolve, me lo alleggerisce. Avere la possibilità, poi, di condividere il mio peso con Dio, cioè parlargliene in preghiera, gli toglie la carica negativa e lo alleggerisce perché lo sento portato insieme a Lui. Incarnare Dio nel mio problema significa vederci una via di speranza; se non un senso, almeno un insegnamento, una possibilità di imparare, di tirar fuori qualità, capacità, energie nuove. Significa vivere il problema con fede, speranza e amore. Per me è questo vedere Dio incarnarsi nel mio problema: accorgermi che una strada nel deserto si apre davanti ai miei occhi e sotto ai miei piedi (Is 43,19).
A Betlemme Dio si incarna in un neonato debole, fragile, dipendente da altri, apparentemente insignificante. Appunto questa è la Sua modalità: Dio si incarna nelle situazioni della mia vita entrandovi in punta di piedi, in silenzio e con rispetto, bussando o trovando la porta socchiusa e sistemandosi in un angolino. Dio non stravolge, non dirompe nella mia storia sconvolgendola, ma si fa spazio in ciò che vivo, come per dirmi: “Io ci sono, io sono con te, se mi vuoi, se mi vedi. Magari  non sono nel tuo problema come tu vorresti, ma lo sono come a te - io lo so! - può servire". Allora se guardo il mio problema con occhi nuovi posso riconoscere il Dio incarnato in un abbraccio, in uno sguardo, in un sorriso, in un “Ti voglio bene, hai bisogno?, se vuoi io posso…, ti aiuto, sei stanca: cosa posso fare?”. Dio si incarna in piccole gocce di speranza e di amore che si trasformano in una pioggerellina di benedizioni silenziose che mi avvolgono bagnandomi in un abbraccio virtuale di tutto l’amore che sento”.

“La mia esperienza di Dio è stata sorprendente: il suo immenso amore contemplato attraverso la venuta di suo figlio in questo mondo e intravisto nel percorso della mia vita ora ritorna attraverso di me per giungere a mio marito. La storia d’amore si ripete… e non è forse questo il suo messaggio universale e sempre valido? AMORE perché Lui è AMORE e se restiamo in questa linea siamo anche noi Amore.
Amore che non bada ai propri desideri e ai propri interessi, ma si spinge più in là, dove le fragilità e i limiti si fanno pesanti da sopportare e tutto ti sembra insuperabile e impossibile. Ma, quando metti da parte il tuo essere in ”prima fila”, ecco che ti sorprende come il SUO Spirito ti trasformi fino a commuoverti e l’atteggiamento che avevi prima, di sfida e di rabbia, ora diventa di accoglienza e di accompagnamento. I frutti sono immediati: la tensione si allenta, l’anima acquista forza ed è pronta a riprendere il suo percorso, sicura che tutto sarà bene.
Dio con il suo amore mi dona la visione dell’altro dal suo punto di vista: i suoi punti deboli diventano allora per me occasioni per ridimensionarmi e sentirlo più caro e da amare”.

“Quest’anno il mio Natale è arrivato quando ho alzato gli occhi dal mio problema, interpellato dal problema di una mia collega d’ufficio. Cristo si è allora incarnato in me per lei; e in lei e negli altri miei colleghi per me, facendomi scoprire che nel lavoro non c’è solo il lavorare, ma spazio per i rapporti umani. E’ emersa così la benedizione nascosta nel mio problema: Dio c’è dove non te lo aspetti se cominci a viverlo dove non ci hai mai pensato”.

“Traduco incarnarsi con altre parole che sento più vicine, idonee, calzanti. Dov’è Dio nel problema che sto vivendo? Dio non è lontano, ma è con me. La sua presenza si fa sentire nel momento in cui io aumento la forza, la tenacia e la voglia di esserci nel problema. Dio non risolve, non giudica, non valuta, non ha aspettative: è seduto accanto a me e, quando io crollo o mi abbatto, lui soffre con me. È il mio carburante per ripartire, la mia batteria per rimettermi in moto e tornare sul campo. Non mi risolve i problemi, non ha bacchetta magica. Ha molta capacità di ascolto, e bontà nell’incassare anche le mie arrabbiature e le mie delusioni. Attende che io mi riprenda anche quando vado giù di tono, di forze e di speranza. Attende quando mi attardo, quando perdo la via, quando mi cullo nella mia sofferenza. Talvolta rimane molto in silenzio ...a lungo ...troppo a lungo: quasi finisco per credere che se ne sia andato e in quel momento mi viene da pensare che forse non c’è mai stato e sento che tutto sta per finire. Ma poi si riparte...: lo spirito mi ha avvolto.
Che frutti vedo? Mi ha reso più forte e ha ispessito la mia corazza per non farmi soffrire, per poter attutire meglio i colpi. Mi ha suggerito di non arrabbiarmi, di accettare gli altri, di non giudicare, di vedere l’altro lato della medaglia. Mi ha insegnato a fare esperienza di Lui attraverso le fatiche e le difficoltà. Ho preso consapevolezza che per certe vie bisogna passare, piaccia o no. Ho capito che in alcune situazioni non si trova sempre la soluzione,
che i miei tempi non sono i suoi e non sono i tempi degli altri. Sto accettando  che non sempre c’è un unica risposta e che non sempre la soluzione è quella che piace a me. Mi sento leggera e soddisfatta quando la scelta giusta si dimostra tale... e gioisco con Lui”.

Abbiamo voluto farvi dono di queste esperienze concrete perché l’augurio che vogliamo farvi per questo Natale è un kèrigma pasquale: “Cristo è vivo! Incarnato nelle nostre storie e aspetta di essere riconosciuto come il Risorto!”
Buon Natale di Gesù nella vostra vita!


                                                  Anna, Cristina, Maria Rosa, Marilisa, Michele, Rosita

12/03/2015

Accompagnare un genitore anziano

A volte siamo “costretti”, dalla situazione stessa in cui ci troviamo a vivere, a trovarci a contatto con persone care che hanno bisogno del nostro sostegno, in questo modo diventiamo così ...spontaneamente ...accompagnatori spirituali.
Quando i nostri genitori diventano anziani, o fuggiamo dal problema o lo affrontiamo con amore e li accompagniamo nel loro cammino di vecchiaia e, a volte, di malattia. Mettersi in ascolto di queste persone non è sempre facile. Molto dipende dai caratteri delle persone coinvolte e dal rapporto personale che si ha con il genitore, dalle esperienze vissute in comune. Talvolta viene richiesto uno sforzo interiore forte, che ci aiuti ad andare oltre le divergenze caratteriali e a guardare al genitore quale persona umana in tutta la sua fragilità del momento e ad ascoltarlo e ad accompagnarlo senza rivangare il passato e senza aspettarsi alcuna ricompensa, vivendo il presente donando se stessi con la certezza nel cuore che ciò è bene sia per noi che per lui.
Il “non temere: io sono con te” che il Signore ci sussurra all’orecchio in queste situazioni diventa un “non temere: io sono con te” anche per le persone che hanno bisogno del nostro sostegno, supporto e ascolto. Ciò può diventare per noi motivo di grande gioia. E, quando siamo affaticati e tristi, permettiamoci di esserlo, perché è tutto normale; ma non cediamo allo scoraggiamento e rimettiamoci in cammino cercando di creare armonia attorno a noi. Il “non temere: io sono con te” diventa così un pilastro al quale appoggiarsi ogni giorno e in ogni momento critico. In questo modo il Signore dà sicurezza a noi e noi trasmettiamo sicurezza a chi attorno a noi ne ha bisogno e diventiamo per loro un pilastro a nostra volta.
In questo modo, la paura, il dolore, le sofferenze della vecchiaia e della malattia trovano uno spiraglio di luce e una speranza in una persona a cui fare riferimento: qualcuno si sta amorevolmente occupando di loro e dei loro bisogni.


                                                                                                                              Anna Bizzotto

11/12/2015

Il senso di indegnità

Quando una persona sinceramente intenzionata a compiere il bene cade in qualche debolezza, il Signore le dona la compunzione del cuore, ossia un dispiacere, comunque mai accompagnato da paura, ansia, disperazione, scoraggiamento, attraverso il quale Egli la richiama dalla strada sbagliata nella quale si era incamminata. Potremmo definirlo un’acuta nostalgia per un amore da cui si è allontanata, ma una nostalgia che è sostanziata di speranza in Dio, di fede nella sua capacità di darle la forza di ritornare ed all’interno della quale risuona una voce che la chiama ad incamminarsi verso una prospettiva diversa.
Lo spirito del male cerca invece di gettarla nella desolazione vera e propria, fatta di turbamento, di rimorso, di scoraggiamento, di incapacità di credere nella forza trasformante dell’amore di Dio.
Quando però lo spirito del male non riesce ad evidenziare scelte sbagliate di natura grave, egli usa allora la tattica di sottolineare la distanza tra quello che la persona è e quello che vorrebbe essere, tra la sua realtà e i suoi ideali di santità.
E’ quanto succede a chi, trasformato dall’amore di Dio e dall’amore per Dio, sta ora iniziando a vivere atteggiamenti nuovi, che però si affiancano ad un modo di fare spesso ancora vincolato all’antico modo di essere, non sempre peccaminoso, ma comunque non ancora del tutto liberato da attaccamenti disordinati.
Ecco allora che la distanza tra sé reale e sé ideale appare incolmabile, la persona si sente doppia, piena di secondi fini che solo ora scopre, indegna di continuare a seguire Cristo. In una parola, rischia di essere colta da uno scoraggiamento che rischia di bloccarne o addirittura farne regredire il cammino. Con il che lo spirito del male avrebbe ottenuto ciò a cui mirava.
Ma non sono solo i piccoli cedimenti che il nemico evidenzia; in questa fase di grandi ideali è anche la banalità dell’impegno quotidiano confrontata con i sogni di cambiare il mondo, talvolta anche l’aridità di una preghiera da cui il Signore sembra essersi allontanato, privando la persona delle consolazioni un tempo così intensamente gustate e lasciandola senza fervore.
In questa situazione, aiuta la persona che accompagni a ricomporre con realismo il suo quadro esistenziale, dando il giusto peso alle sue debolezze, anche situandole nell’ambito del cammino che sta percorrendo (non fare più di quanto lo Spirito le chiede). Ma, soprattutto, aiutala a rifondare il suo operare sulla Grazia: o il fare è il traboccare di un amore che in sé non si riesce più a contenere o… non è. Amare non può essere opera sua, ma opera di Dio in lei, attraverso di lei.
Può essere utile aiutarla a ritarare la preghiera, forse un po’ troppo di testa, per riportarla al cuore, dal pensare all’ ”essere con”. In fondo questo è l’ultimo attaccamento da perdere: quello alla sua santità, all’illusione di essere lei a salvare le persone, per guadagnare la ricchezza più grande: sentirsi amata dal Signore nella sua povertà e fare esperienza che incredibilmente, proprio a partire da questa povertà, il Signore opera la salvezza.

                                                                                                                        Michele Bortignon

10/05/2015

Superare l’ansia dell’incertezza

Ogni due anni, cioè alla fine di un ciclo di esercizi Kaire, per noi accompagnatori, puntualmente, si presenta la difficoltà, unita all'incertezza, di partire con un nuovo gruppo. Oltre alla difficoltà, più o meno evidente, di reclutare esercitanti, c'è l'incertezza di non sapere fino all’ultimo momento se sarà un gruppetto esiguo o un gruppo numeroso. Il desiderio di ogni accompagnatore, come quello di ogni insegnante, è di avere una classe equilibrata: né troppi, né troppo pochi, e mista: maschi e femmine; insomma vorremmo il gruppo perfetto.
Ma un gruppo Kaire non è una classe e l’accompagnatore non è un insegnante.
Quest'anno, per non farmi prendere dall'ansia dell'incertezza, ho giocato d’anticipo e la presentazione del cammino Kaire l'ho fatta in primavera, prima ancora di finire con il gruppo uscente. «Così avranno tutta l'estate per riflettere e poi chi sarà sicuro partirà e io sarò tranquilla per tutto il periodo estivo»: questo è quello che pensavo; ma non avevo fatto i conti con Dio.
Dei numerosi possibili esercitanti, accorsi alla serata di presentazione, mi sono ritrovata con un esiguo resto. E, più mi preoccupavo e mi davo da fare, meno ottenevo.
Io che caratterialmente sono una che vorrebbe pianificare tutto per tempo, io che non vorrei lasciare nulla al caso, io che tendenzialmente non mi prendo mai in ritardo, io che non organizzo mai le cose all'ultimo minuto, ho dovuto fare i conti con l'imprevedibilità di Dio e con un Dio a cui non sono mai interessati i grandi numeri, ma le singole persone.
In effetti, la partenza di un nuovo gruppo lo sentivo come un problema e come tale pretendevo che andasse risolto a modo mio: per me era ovvio che il gruppo doveva partire e con un buon numero di esercitanti. Ma non era un problema solo mio, anzi, non era nemmeno un problema: è questo ciò che non avevo capito.
Aiutata a ricentrarmi, riflettendo se la mia prospettiva fosse quella di dare esercizi per vivere oppure quella di vivere in esercizi per darli se serve, ho capito che il Kaire non è l’unico modo di accompagnare e che accompagnare non è l’unica mia modalità per camminare con Dio.
Il numero degli esercitanti cambiava qualcosa del mio essere accompagnatrice? Che cosa cambiava del mio camminare con Dio se partiva un gruppo oppure no?
Il mio vivere con Lui, di Lui e per Lui attraverso gli altri non cambia qualsiasi sia il modo in cui mi sentirò chiamata a farlo. Accompagnerò sempre, anche solo chi mi vive accanto: è un mio modo di essere. Certo che è destabilizzante riorganizzarmi in qualcos’altro e mi chiedo: «Se non a dare esercizi attraverso il Kaire a cosa mi chiama?».
Nel momento in cui ho iniziato a fidarmi e affidarmi a Dio, il problema non mi è più apparso come tale: era tutto nuovamente in mano a Lui. Soprattutto ero io ad essere nel palmo della Sua mano. Sì, ho capito che la cosa importante era stare con Lui e decidere assieme a Lui; tutto il resto veniva dopo, era in secondo piano.
Affido a Dio il mio timore, io ci sono, desidero partire, ma basta, non me ne voglio pre-occupare, ma solo occupare se mi verrà ri-affidato. Non era cambiato apparentemente nulla, se non la mia disposizione d'animo e il mio atteggiamento interiore di fiducia e affidamento. L'importante era Lui, camminare con Lui, non la strada che avrei percorso. Quando si sta con chi ci ama e che noi amiamo, non è il luogo che conta, ma l'essere presenti l'un l'altro. 
Ecco, ero ritornata presente a Dio, lo avevo nuovamente ricollocato al di sopra dei miei progetti, anzi glieli avevo restituiti: erano “roba” Sua. Il senso di leggerezza e di libertà provata era la testimonianza che avevo rimesso tutto al giusto posto, dando il giusto peso alle cose. E, nel momento in cui ho smesso di aver paura di perdere qualcosa, è stato allora che ho trovato ciò che avevo temuto di perdere.

Che cosa ho capito? Che con Dio è inutile programmare e prendersi per tempo sentendo tutto il peso sulle proprie spalle. Con Dio, un progetto, una attività non dipendono esclusivamente da me. Quello che io posso considerare un buon risultato, perché segue la mia logica umana, non è detto che sia un buon risultato anche per Lui. Ho capito che accompagnare non è principalmente un servizio, ma un’opportunità che Dio mi dà per crescere e le difficoltà sono uno stimolo a maturare umanamente.
Dio mi sta insegnando la fiducia, la calma e il sapermi fidare e affidare; mi insegna a reinventarmi, a ricentrarmi, a ridimensionarmi. Abbiamo sempre bisogno di un “ripassino” e lui, volenti o no, ce lo fa fare.
È come se avesse voluto ricordarmi che per lui sono importante perché sono io e non per quello che faccio.
Solo se  riusciamo a fermarci e a zittire il nostro io impaurito riusciremo ad ascoltare la Sua voce di sottile silenzio che ci sussurra: «Mi interessi tu perché sei tu, non per quello che fai».


                                                                                                         Maria Rosa Brian

9/04/2015

Lamentarsi o reinventarsi?

In un momento in cui la crisi economica fa perdere a tanti il lavoro, nemmeno dovrei lamentarmi di un semplice declassamento. Ma, si sa, ognuno sente il proprio di problema.
Ho attraversato il mio momento di accettazione solo esteriore, poi di rabbia e infine di lamentela, di brontolamento. Ma... si può continuare a vivere nella recriminazione? No: non è questa la promessa-chiamata di Dio, che in me vede un figlio che sa vivere nella gioia, nella pace, nella libertà interiore. E la strada per raggiungerle so che è quella della mia missione, del mio compito nella vita, in cui sono pienamente me stesso quanto più sono Lui per gli altri.
Sì: quando distogliamo gli occhi dalla direzione della nostra vita, le inevitabili difficoltà che incontriamo nel nostro percorso appaiono abissi aperti sul nulla del non senso.
Al presente contingente devo allora dare un senso, rendendolo costruttore del più vasto ambito che è ciò che sono chiamato ad essere. E ciò trasformando il disastro in opportunità, l'inciampo in esperienza di vita, la morte in risurrezione.
Il cristiano non è esente dalle difficoltà né dal loro impatto emotivo, ma, dopo la normale reazione istintiva, decide di accoglierle come sfida a un di più.
Il primo passo in questa direzione è capire che cosa mi ferisce nella nuova situazione.
Prima il lavoro era fonte di gratificazione e di autostima perché professionale, creativo, autonomo e responsabile. Ora mi trovo a esercitare mansioni ripetitive, banali, controllate e in cui vengo talora ripreso per punti di vista diversi sul come fare le cose.
Il secondo passo è quello di “redimere” questa situazione, ossia trasformare il negativo in positivo cogliendone le potenzialità. Il pensare che posso imparare pazienza, docilità, umiltà, obbedienza non mi dispiace, ma nemmeno mi soddisfa: sembra solo un premio di consolazione. E allora comprendo che questo secondo passo è solo psicologico: non c'è l'anima del cristianesimo, che è la Pasqua, il passaggio dalla morte al totalmente inaspettato e sovrabbondante della risurrezione, possibile solo quando si imbocca la via del farsi uno con Cristo. E, con Cristo, la sfida autentica è quella della libertà da se stessi per essere uno con gli altri.
Il rischio, come mi sta accadendo, è invece quello di ripiegarmi lamentosamente su me stesso occupandomi dei miei bisogni. Ora che mi è stato tolto il sostegno del senso della mia validità, saprò collocare la mia forza soltanto nell'”io sarò con te” di Dio? Questa domanda non ha senso per il cristiano: è suggerita dal demonio, che insinua la paura per la possibilità che ciò possa anche non accadere.
“Non ti ho io comandato: «Sii forte e coraggioso?» Non temere dunque e non spaventarti, perché è con te il Signore tuo Dio, dovunque tu vada” (Gios 1, 9), rammenta Dio a Giosuè che si pone i suoi dubbi di fronte all'entrata nella terra promessa. Giacobbe diventa Israele, “forte con Dio”, non perché ci prova, ma perché questa è la sua storia con Dio, quella che san Paolo chiamerà “elezione”. Si tratta allora di riconoscere che Dio c'è già nella mia vita per compiere ciò che ha cominciato… se io lo lascio fare, cercando di non porgli troppi ostacoli tenendomi aggrappato a ciò che soddisfa i miei piccoli bisogni, a ciò che tacita le mie piccole angosce. E allora decido semplicemente di essere fedele a chi mi è fedele, di essere radicalmente e per sempre con Lui, ricollocandomi al mio centro, sul mio punto di forza, in ciò che da senso alla mia vita, continuando ciò che è stato il meglio per me finora. Ogni tanto bisogna rifare questa scelta di Dio…! Certo, serve qualche taglio per liberarmi dalle illusioni del mio piccolo precedente benessere; ok, lo faccio, fidandomi che “sul monte Dio provvede”: c'è una salita da fare per verificarlo. Quel Dio che fa il primo passo per offrirmi la sua prospettiva, attende il mio primo passo per incamminarmi su di essa: soltanto allora c'è reciprocità, c'è relazione adulta, c'è la corresponsabilità di un cammino. E su quel monte, guardandomi indietro, vedrò che tutto questo avrà avuto senso, sarà stato il mio “meglio”, il solo modo in cui potevo rendere la mia vita bella e feconda di frutti.
Praticamente, per me questo significa passare dal considerare il mio lavoro come elemento costitutivo del mio io al porlo come elemento costruttivo della mia missione. Non dare importanza alle mie realizzazioni perché aumentano la mia autostima o ai miei errori perché la diminuiscono, ma a ciò che in esso vivo per sintonizzarlo sullo Spirito di Cristo. E in quest'ottica sì posso allora recuperare la valenza dell'umiltà, della pazienza, della docilità, dell'obbedienza che la situazione mi richiede, sentendole costruttive della mia identità in Dio, in vista della cristificazione della missione che mi è stata affidata.
Non voglio trovare la mia Vita in ciò che mi dà il mio lavoro, ma nell'essere unito a Dio in ciò che faccio. Basta dare la colpa agli altri, brontolare e lamentarmi (che è un autodistruggermi!); ce la vediamo io e te, Signore, in vista di quello che stiamo facendo assieme. Ti offro allora il mio lavoro come palestra di approfondimento della mia umanità, per donarla agli altri più ricca di esperienza concreta.

Parafrasando San Francesco…
Frate Leone, scrivi che, quand’anche tu realizzassi grandi imprese per il Regno di Dio, non è lì la perfetta letizia. Ma quando in ciò che stai vivendo accetterai con pace le difficoltà e le sofferenze che la vita pone sul tuo cammino trasmettendo pace attorno a te, scrivi che lì è perfetta letizia, perché farai vivere in te il Dio della pace e sarà Lui, proprio in questo modo, a costruire il suo Regno in mezzo agli uomini.


                                                                        Michele Bortignon

8/10/2015

Tentazioni e carità: quando la forza non viene da te

Nei loro scritti, i grandi autori spirituali descrivono e tematizzano le loro esperienze non per attirare le persone a ripeterle, ma perché, quando una si trovi a propria volta a viverle, non se ne spaventi, non vi si senta smarrita, ma si trovi consolata nel rendersi conto che si tratta di situazioni comuni ad un certo punto del cammino spirituale.
E’ il caso ad esempio, della recrudescenza delle tentazioni. “Quando preghi come si deve, aspettati quel che non si deve”, scrive Elia Ecdico. Sembra impossibile, ma la violenza delle tentazioni e l’effettiva percorribilità delle situazioni che esse prospettano aumenta con l’avanzare della vita spirituale. Chi ne parla (ricordiamo, ad esempio, S. Antonio abate o il curato d’Ars) lo fa per metafora: è così difficile ammettere di essere colpiti, trascinati, atterrati da impulsi di cui proviamo vergogna! Da cui tutti i racconti di dèmoni che si scatenano di notte contro il protagonista del racconto. Di notte… sì, perché le tentazioni costruiscono il loro mondo irreale nel vuoto della realtà, dove tutto è possibile. Alla luce del giorno tutto cambia: la realtà torna a imporsi e il cuore si ritrova di nuovo pieno di Colui con cui hai deciso di condividere la tua vita.
Le prime volte che ti succede, però, sei colto da un senso di indegnità, quasi che le fantasie che ti invadono fossero già peccato, già tradimento della relazione su cui hai deciso di fondarti.
Com’è tutto diverso da quando, agli inizi del cammino con Dio,  ti sentivi a posto, tranquillo ed entusiasta della nuova avventura con il tuo Signore! Logico: eri assolutamente inoffensivo per il demonio. Il bene che pure facevi era a circuito chiuso: pagato dalla soddisfazione ricevuta in cambio nel compierlo, mattone per l’autocostruzione del tuo io.
Che cosa è cambiato da allora? C’è stato il passaggio della fedeltà. Non una fedeltà ascetica, anch’essa costruzione del tuo io, ma una fedeltà nonostante te, tenuta in vita da una struggente nostalgia che ti impedisce di allontanarti da Lui.
E, nella tentazione, ti sembra di essere come quella bandiera che il vento volge dove vuole, fino a sfibrarla e a stracciarla, ma senza riuscire a portarla con sé, perché saldamente legata al pennone.
Quando poi la realtà ti mette proprio in quelle situazioni in cui la tua fantasia si era scatenata sotto la spinta della tentazione, non succede nulla, se non l’esprimersi di quell’Amore che ti riempie. E allora capisci che proprio questo la tentazione era stata mandata a impedire, perché non sei più tu ad amare, ma hai imparato a lasciare che Dio ami attraverso di te. Sei diventato pericoloso per lo spirito del male, che ora scatena contro di te tutte le sue forze, in una battaglia senza tregua.

La cosa più strana di questa situazione è che ti sembra di non star facendo niente di particolare per gli altri; semplicemente godi della bellezza in cui sei immerso, con il cuore gonfio. E ti sorprendi quando ti chiedono come fai ad amare dove gli altri scappano. Il cuore è colmo, e, semplicemente, trabocca di un amore fecondo, senza sentire di star facendo assolutamente nulla.

Santa Teresa d’Avila parla di questa stessa situazione con la metafora delle due fontane: “Supponiamo, per meglio intenderci, di vedere due fontane i cui bacini si riempiono di acqua, ma in modo diverso. In uno l'acqua viene da lontano per via di acquedotti e di artificio, mentre l'altro, essendo costruito nella sorgente, si riempie senza rumore.
Se la sorgente è abbondante, com'è questa di cui parliamo, non solo riempie il bacino, ma questo, a sua volta, rigurgita in un grosso ruscello continuamente alimentato, senza bisogno di condutture o d'artificio. E in ciò consiste la differenza. Qui l'acqua deriva dalla stessa sorgente che è Dio; e quando Sua Maestà si compiace di accordare qualche grazia soprannaturale, l'acqua fluisce nel più profondo dell'anima con pace, dolcezza e tranquillità inesprimibile, senza che si sappia da dove e in che modo scaturisca.
Scrivendo queste righe, ricordo il versetto “Dilatasti cor meum”, nel quale si dice che il cuore si è dilatato. Tuttavia, mi pare che questi effetti, invece di nascere dal cuore, provengano da un punto più interno, come da una cosa molto profonda. Penso che debba essere dal centro dell'anima. Questo versetto mi può servire per far comprendere la dilatazione di cui parlo. Appena l'acqua celeste comincia a sgorgare dalla sua sorgente, vale a dire dal profondo di noi stessi, sembra che il nostro interno si vada dilatando ed ampliando, empiendosi di beni eccellenti ed ineffabili, tanto che la stessa anima non sa comprendere ciò che allora riceve” (Teresa de Jesus, Il castello interiore, Quarte mansioni, 2, 2-6).

A volte, è vero, qualche cedimento può accadere, ma ti trovi a trasformarlo in lezione di vita, che ti aiuta ad essere più forte le volte successive, quando ancora la situazione si ripresenti.

Mi si dirà che ben diverso è il presentarsi della tentazione all’inizio del cammino spirituale, quando l’intimità con Dio non è ancora così consolidata. In un’occasione in cui mi ci sono trovato immerso, inutilmente lottando contro di essa con i miei ragionamenti mentre essa mi colpiva a livello emotivo, compresi che al suo spingermi a fare quel che essa vuole posso oppormi facendo quel che essa non vuole: «Non lottare per distruggere» mi dissi, «ma per costruire sul versante opposto». Quasi un proverbio, che ora, a distanza di anni, tradurrei così: non è la lotta per staccarti dagli attaccamenti disordinati che ti salva, ma l’attaccarti a Chi rapisce la tua anima nella bellezza.

Vorrei concludere con una preghiera, che mi aiuti e ti aiuti a vivere la tentazione non come una deviazione nel cammino spirituale, ma proprio come la prova che lo approfondisce e lo rafforza:

Quando la vertigine m'assale
difendi tu stesso, Signore,
in me il tuo volto.
Vissuta con te,
la tentazione mi pianterà più a fondo
nello spessore della Vita.


                                                                     Michele Bortignon

7/08/2015

Il vero senso dell’obbedienza

Giorni fa, leggendo l’autobiografia di Paisij Velickowskij (il fondatore dello “Starcestvo”, ossia di una rinnovata modalità di accompagnamento spirituale nella Russia alla fine del XVIII° secolo, nonché redattore della “Filocalia”), mi colpiva come stava parlando dell’obbedienza nella vita del monaco.
Nella nostra epoca, se c’è una virtù che suona particolarmente antipatica è proprio questa: la sentiamo assurda rinuncia al diritto di pensare con la nostra testa, di seguire i desideri e le intuizioni del nostro cuore. Questo perché consideriamo il nostro itinerario spirituale qualcosa che possiamo gestire autonomamente.
Nella visione di Paisij è invece chiaro che l’unico riferimento è Cristo, e tutti siamo alla ricerca di una sempre più stretta comunione con Lui, per vivere nella Vita che Lui ci ha aperto come prospettiva di pienezza.
Se questo è l’obiettivo, tutto il resto - compresa l’obbedienza! – è dunque una strategia, è via al suo raggiungimento. Chi chiede di essere aiutato a raggiungerlo, non conoscendone la via, si dichiara disponibile a seguire le indicazioni di chi ha già percorso con frutto un tratto di strada in quella direzione. Obbedienza non è dunque accettare un’imposizione, ma liberamente scegliere di percorrere strade diverse da quelle già note, per raggiungere risultati diversi da quelli già ottenuti; perché… se vuoi ottenere qualcosa di diverso, devi fare qualcosa di diverso!
Di questa ricerca l’accompagnatore si mette a servizio con la propria esperienza, senza però ritenerla esaustiva, normativa per ogni altra, ma ispirativa; apertura di prospettive, non delimitazione autoritaria. E ciò richiamandosi egli stesso alle fonti ispiratrici comuni: le Scritture e i testi dei Padri. Non impone, pertanto, la propria visione della spiritualità, ma insegna il gusto del mistero, ossia del costruire il proprio itinerario prendendo il meglio che lo Spirito evidenzia nell’esperienza di chi, più avanzato di noi nella fede, ci ha preceduto o ci vive accanto.
Obbedire diventa allora un posare il proprio piede su un gradino che ci viene offerto per salire, non sopportare il peso di un piede poggiato sul collo per impedirci di muoverci.
Certo, ci sono l’iniziale contrarietà e fatica insite nel cambiamento, ma se queste diventano una costante e non si trasformano nella gioia che segue al maturare di frutti buoni, c’è da chiedersi se non siamo vittime di una manipolazione, se l’obbedienza non sia strumento al raggiungimento di fini che non sono il nostro o il comune bene, ma esclusivamente l’interesse di chi ce la impone. Ad evitare questa deriva, la Regola che Paisij ha scritto per la conduzione dei monasteri da lui fondati impegna il superiore a studiare la Scrittura e i Padri e a non osare trasmettere ai fratelli insegnamenti propri, tenendo presente che maestra e guida per la salvezza è la Parola di Dio. Una Parola che l’accompagnamento spirituale dona come spunto per aprire la situazione che la persona sta vivendo a una prospettiva di Vita in cui è lei, però, a dover creare l’itinerario.
Per questo l’accompagnatore, ben conscio di possedere solo uno dei possibili punti di vista, apre sempre a tutti i possibili apporti, fiducioso che la persona, in ascolto dello Spirito, vi si saprà orientare, per poi fare la sintesi più opportuna: “E non dire che è sufficiente leggere uno o due libri per la propria guida spirituale. L’ape non raccoglie il miele da uno o due fiori, ma da molti. Allo stesso modo chi legge i libri dei santi Padri: da uno è guidato sulla fede e sulla sana pazienza, da un altro sul silenzio e sulla preghiera, da un altro sul biasimo di sé e sull’amore a Dio e al prossimo. Per dirla in breve, leggendo molti Padri uno impara come vivere la vita evangelica”.
Per questo, ad esempio, nella Filocalia Paisij ha offerto gli insegnamenti dei Padri più sperimentati nella preghiera e nella lotta spirituale.
Da parte sua, il discepolo è invitato a non opporre resistenza agli insegnamenti e alle raccomandazioni del suo accompagnatore nella misura in cui queste sono conformi ai comandamenti di Dio e alla dottrina dei Padri. Il suo non è, dunque, un ruolo passivo, di abbandono acritico, ma di fiducia inquadrata in un continuo discernimento: un orecchio rivolto alla parola dell’accompagnatore e uno rivolto allo Spirito, che ricorda tutto ciò che Gesù ha detto. Solo se entrambe queste parole coincidono si sentirà impegnato a seguire ciò che gli viene detto; perché non è possibile che lo Spirito si contraddica.
Soltanto allora potrà vivere quell’obbedienza che Paisij definisce “non agire più secondo le proprie scelte o comportarsi secondo le proprie opinioni personali”, perché sente, come continua a dire Paisij, che chi lo accompagna gli è padre nello Spirito, ossia lo istruisce non da se stesso, ma a partire dalla Sacra Scrittura e dalla medesima dottrina dei santi Padri. Ma, soprattutto, è credibile e attraente perché la Parola che gli annuncia è lui stesso per primo a viverla: “Istruisci le persone che accompagni nella via della salvezza presentandoti a loro, sostenuta dall’aiuto di Dio, come esempio di ogni virtù nella fedele osservanza dei comandamenti evangelici, nell’amore per Dio e per il prossimo, nella mansuetudine e nell’umiltà, nel custodire costantemente la più profonda pace di Cristo verso tutte”.
Se l’obbedienza è vissuta in questo Spirito, c’è un clima di grande libertà reciproca tra accompagnatore e accompagnato. L’essere entrambi rivolti a Dio fa venir meno le reciproche aspettative, soprattutto quel paternalismo che conduce a una “dittatura del bene”. Paisij arriva a dire: “Se tuo figlio ti avesse abbandonato anche per dedicarsi al brigantaggio o per qualche altro genere di vita peccaminoso, anche in questo caso non avresti dovuto amareggiarti oltre misura: ciascuno, infatti, renderà personalmente conto a Dio del suo agire nel giorno del giudizio”.
Possiamo dunque concludere con quanto Paisij racconta essersi sentito dire, agli inizi della sua vocazione, da un anziano monaco: “L’inizio, la radice e il fondamento della vera vita monastica consiste in una vera obbedienza e in un perfetto abbandono e rinuncia alla propria volontà e giudizio, conformemente al volere di Dio, all’intelligenza delle Sacre Scritture e all’insegnamento dei Padri”.
Non è, questo, il programma di chiunque voglia dedicarsi pienamente a raggiungere qualcosa che non possiede ma da cui si sente fortemente attirato?

                                                                                          Michele Bortignon

6/04/2015

Madre o accompagnatrice, ovvero la giusta distanza

Non mi sono mai considerata una madre chioccia, cioè troppo  apprensiva, o troppo ansiosa. Anzi, ho sempre pensato che amare  significa anche saper lasciare andare.
Forse però bisognerebbe sentire il parere dei diretti interessati, ovvero dei miei figli...
Dopo un primo sguardo meravigliato da parte loro per l'insolita domanda, ho avuto la conferma che effettivamente non sono una madre  soffocante… almeno su qualcosa siamo d’accordo!
Mi chiedo ora: qual è la differenza tra l'essere madre e l'essere accompagnatrice?
Se Dio ci è padre e madre significa che in sé ha entrambe le caratteristiche di genere che distinguono l'essere genitore: ovvero l'accoglienza, la disponibilità, la protezione, che distinguono la madre, e la direzione, l'autorevolezza, la fermezza, tipiche del padre. Accompagnare significa avere entrambe queste caratteristiche, dosate all'occorrenza; a dire quando usare l'una o l'altra sarà il tuo sentire e il Suo Spirito.
La differenza, a questo punto, tra l'essere madre o accompagnatrice non è differenza data da un “sentire materno”, ma da un “essere chioccia".
Essere madre e non chioccia significa lasciare libero il figlio, o chi accompagni, di fare le sue scelte: se vuole sbattere il naso a tutti costi è libero di farlo; gli servirà, forse, più che avere chi lo ferma in tempo anche contro il suo volere. Essere madre e non chioccia significa indirizzare senza forzare: significa aprire strade senza ficcarci dentro le persone; significa non anticipare i bisogni risolvendo i problemi, ma essere disponibile ad affrontare insieme i problemi e le difficoltà. Essere madre e accompagnatrice significa accettare anche le conseguenza di lasciare libero l’altro, cioè di non essere immune dal dolore che ti coglie quando ti accorgi che il figlio sbaglia. È doloroso quando ti rendi conto che non sta agendo per il suo vero bene e capisci che non lo puoi fermare perché  non vuol essere fermato o che non lo puoi consigliare perché non sente ragioni.
Difficile dosare severità e dolcezza, vicinanza e giusta distanza. Come distinguere il giusto consiglio dall’invadenza? O la giusta premura dell’eccessivo coinvolgimento? Come capire quando “forzare” e quando lasciar perdere?
Attenzione: il rischio, sia con i figli che con chi accompagni, è di voler rispondere non a un bisogno dell’altro, ma a una tua paura: di abbandono? Di essere bravo e capace? Di essere il salvatore del mondo? Ma la via che Gesù ci addita porta all'amore e non al successo; a dare, non a soddisfare i propri bisogni.
Le persone vanno accompagnate, non tirate a tutti i costi. Soprattutto deve esserci un desiderio da parte dell’altro, anche un piccolo germoglio, ma deve esserci qualcosa. Sta all’accompagnatore o al genitore stuzzicare l’interesse, ma se non c’è nell’altro quel minimo di volontà di camminare è inutile; forse, semplicemente, non è il momento per quella persona, per quel figlio.
C'è una giusta distanza che permette di stare vicino senza soffocare, che permette di affiancare senza tenere sempre per mano: è lo stile di Gesù. Guardiamo a Lui, al suo modo di accompagnare. Vediamo nel brano dei due discepoli di Emmaus la pedagogia di Gesù (Lc 24,13-35).
Mentre conversavano e discutevano insieme, Gesù in persona si avvicinò e camminava con loro”. Gesù affianca i due discepoli sulla strada verso Emmaus e cammina assieme a loro. Percorre la stessa strada, gli stessi passi, la stessa polvere a sporcare i piedi, la stessa afa, la stessa fatica. Gesù si fa raccontare, li lascia spiegare («Che cosa sono questi discorsi che state facendo tra voi lungo il cammino?») e solo dopo racconta e spiega (E, cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui). Gesù non li precede, sia nelle riflessioni che fisicamente, ma li affianca. Non anticipa i loro bisogni, ma li lascia emergere. Non dà  subito risposte, ma lascia affiorare domande. Non consola immediatamente, ma lascia sfogare. Alla fine  non chiede di restare, ma accenna ad andare oltre e si ferma solo perché invitato (Egli fece come se dovesse andare più lontano. Ma essi insistettero: «Resta con noi, perché si fa sera e il giorno è ormai al tramonto»). Solo se accolto e chiamato entra “Ecco: sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me” (Ap 3,20).
La giusta distanza nell'accompagnamento possiamo riassumerla in un'immagine. È una scena ben nota a tutti. È quella di una madre/padre che, lasciate le mani del suo bambino, lo incita a muovere i primi prassi, pronto a sorreggerlo appena lo vede barcollare. Non gli tiene la mano, ma è veloce ad afferrargliela appena lo vede in difficoltà.
Non è questa anche l'immagine di Dio con i suoi figli? Per un istante ti ho abbandonata, ma ti raccoglierò con immenso amore.. (Is 54,7)
Alla fine se hai agito con amore, se vuoi il bene di quella persona e hai fatto ciò che in quel momento per te era possibile fare, non cadere in inutili pensieri tormentosi. Ricordati: non puoi tendere la mano a chi non vuole afferrarla. E, soprattutto, tieni presente che... Dio esiste, ma non sei tu!


                                                                                               Maria Rosa Brian

5/11/2015

Quando i problemi ti piovono addosso

Non vi è mai capitato di sentirvi sommersi, travolti da problemi che si aggiungono l'uno all'altro lasciandovi disorientati, senza quasi sapere da che parte cominciare, sentendo che, per quanto fate, comunque non riuscite a tenere assieme tutti i pezzi della situazione; e con una voglia assillante di scappare lontano dal disastro che state vivendo? Beh, se è così, allora sapete cos'è l'ansia.
A qualcuno comincia prima, appena qualche problema mette fuori il naso; a qualcun altro quando i problemi si fanno oggettivamente difficili da gestire. Il risultato è comunque identico: ci ritroviamo affaticati e oppressi. Come se un peso immane sopra di noi ci togliesse il respiro e le forze.
Bene: la buona notizia è che Gesù sa di noi. “Venite a me, voi tutti affaticati e oppressi, e io vi ristorerò” (Mt 11, 28). Non dice “Farò un miracolo e i problemi spariranno” e nemmeno “Vi aiuterò a risolverli”. Dice “Vi ristorerò”. Cosa significa questo Gesù “ristorante”?
Al ristorante colmiamo il nostro buco allo stomaco  e calmiamo la nostra sete con qualcosa di buono e nutriente, che ci fa stare bene.
Di te ha sete l'anima mia, come terra deserta, arida, senz'acqua” (Sal 62, 2) confessa il salmista; “Su, ascoltatemi e mangerete cose buone e gusterete cibi succulenti” (Is 55, 2) fa dire Isaia a Dio.
Gesù va al nocciolo della questione: il problema non sono i problemi, ma la nostra insicurezza, il sentirci soli ad affrontarli, il sentirli come uno sbaglio della vita e una crudeltà nei nostri confronti. Il problema siamo noi e il nostro modo di affrontare i problemi. Il problema è non avere in noi la via, la verità e la vita. E allora Gesù ci dice “Venite a me”. E ci ristora semplicemente dicendoci “Non temere, io sono con te”. Tutto posso in Colui che mi dà forza” (Fil 4, 13) dice san Paolo. Con Lui scopriamo la via, troviamo il coraggio di fare verità, entriamo nella Vita autentica. Come? Lasciandoci guidare da Lui a capire come mettere un po’ di fede, un po' di speranza, un po' d'amore in ciò che stiamo facendo.
Ma il regalo più grande Gesù ce lo fa mettendoci in comunione, attraverso di sé, col Padre.
Anche Gesù aveva bisogno di sentirsi consolato e confermato dal Padre sulla strada da seguire. E il Padre, nella preghiera, condivide con Lui il suo Spirito... ma anche un po' della sua natura, di cui il Figlio ci rende poi partecipi facendoci con Lui dei “con-creatori”. Creatori di che cosa? Di senso.
Cambiare le situazioni per renderle più vivibili è un dovere che col nostro impegno possiamo attuare; ma per dare un senso a ciò che non si può cambiare ci vuole una speciale grazia di Dio, che con Sé ci vuole rendere con-creatori di senso in ciò che di per sé è assurdo, inaccettabile, distruttivo.
Dare senso significa rovesciare il negativo in positivo; significa dare, al peso che schiaccia, il volto di una sfida verso una crescita in ciò che ci rende sempre più somiglianti al Cristo; significa accogliere la croce senza rassegnazione, ma con la determinazione, data dalla fede, di trasformarla dal di dentro vivendola nello Spirito del Cristo, credendo che “Se siamo stati completamente uniti a lui con una morte simile alla sua, lo saremo anche con la sua risurrezione” (Rm 6, 5).
Non è, questo, il senso del sacrificio, ossia del “rendere sacro”? Offrire a Dio l’affrontare la propria situazione come condivisione della sua Pasqua: nella morte credere la risurrezione perché Lui di qui è passato e lì ci aspetta. Ecco allora che anche l’Eucaristia diventa luogo in cui rinnovare questa comunione con Cristo e accoglierla come sua promessa.

Resto con Te, Signore,
accoccolato sul tuo cuore,
e affronto un problema alla volta,
come posso.

Fammi essere il tuo sorriso
nell'angoscia che mi circonda,
un attimo di sole
che fa bene dentro.

                                                                      Michele Bortignon

4/21/2015

Agire o reagire? Oltre la terza legge della dinamica

La terza legge della dinamica afferma che ad ogni azione corrisponde una reazione di uguale intensità in direzione opposta. Una legge che spesso riconosciamo applicata anche nelle relazioni interpersonali.
Se mi insulti, se mi dai uno schiaffo, se mi deridi, se mi fai sentire sbagliata, incapace, insignificante, tu mi spingi a reagire. Posso reagire copiando le tue mosse: ti posso, a mia volta, insultare, colpire, deridere. Oppure posso reagire chiudendomi in me stessa a leccarmi le ferite, a rimuginare, a fartela pagare con l’ostruzionismo. Posso esplodere o implodere, posso reagire in modo attivo o passivo. In entrambi i casi la mia è una reazione ad una tua azione, cioè non agisco liberamente ma reagisco per difendermi.
Quelli che ho illustrato sono due possibili modi di porsi di fronte ad un attacco dell’altro. Sono modi apparentemente opposti tra di loro, ma che portano alla stessa conclusione: fare il suo gioco. Sono due strade opposte che portano a un’unica meta: cadere nel tranello che l’altro inconsciamente pone; cioè reagire spinta dal bisogno di difendermi, mettendo in atto una forza opposta e di uguale intensità a quella da cui sono stata colpita.
Implodere o esplodere dipendono dalla mia storia, dai miei condizionamenti, dal mio bagaglio culturale e affettivo, dall’educazione ricevuta da piccola.
Ma è libertà reagire o è entrare nel gioco dell'altro, confermandolo? Quando reagisco con le stesse regole del tuo gioco, come posso pensare di poterti cambiare, o meglio come posso aiutarti a non comportarti più in modo aggressivo con me? Se mi lascio condizionare, colpire e ferire dalle tue azioni come faccio a farti capire che il tuo è un modo sbagliato di porsi? Semplicemente reagendo in un modo o nell’altro ti do atto che con il tuo comportamento ottieni qualcosa.
Proviamo a fare un semplicissimo esempio: una banalissima lite fra coniugi. Lui urla a lei: «Sei la solita ritardataria, non sei mai pronta, dobbiamo partire e tu sei ancora in bagno a prepararti!». Possibile reazione di lei: esplode, lo aggredisce insultandolo e sottolineando che lei è in ritardo per tutta una serie di motivi che gli elenca accusando che lui in casa non fa nulla e che è in ritardo a causa della sua negligenza. Seconda possibilità: lei implode, si chiude in un silenzio tombale, si prepara in fretta e non gli rivolge la parola minimo per tutta la serata e oltre; la storia può scivolare in una logorante guerra di trincea.
Ma esiste una terza via? Ovvero invece di reagire allo stimolo subito posso agire? Posso non lasciarmi influenzare dall’azione dell’altro reagendo di conseguenza? Posso proseguire per la mia strada restando fedele a me stessa, al mio modo di comportarmi, alle mie idee, al mio modo di essere? Naturalmente le osservazioni degli altri mi servono per fare una verifica del mio comportamento: possono anche aver ragione; di sicuro una parte di verità ce l’ha anche l’altro: sbagliato è il modo che ha di porsi.
Ma il problema qui resta la mia reazione all’azione dell’altro e non il suo avere torto o ragione. Per agire devo aver chiaro dove sono e dove voglio andare e dove non voglio lasciarmi portare. Esemplare è il modo di agire di Gesù di fronte allo schiaffo ricevuto dalla guardia durante l’interrogatorio del sommo sacerdote: “Gli rispose Gesù: «Se ho parlato male, dimostrami dov’è il male. Ma se ho parlato bene, perché mi percuoti?».( Gv 18,23). Gesù non subisce gli eventi, non si lascia trascinare, non si difende a ogni costo, non tenta vigliaccamente di salvarsi. Gesù è protagonista della scena, non reagisce, Lui agisce riconducendo l’altro alle proprie azioni cercando di farlo ragionare.
Rivediamo la scenetta che ho illustrato prima. Come lei può agire senza lasciarsi condizionare dall’accusa di lui e senza bisogno di difendersi? Può semplicemente argomentare le sue ragioni e, indifferentemente dalla comprensione e accettazione da parte dell’altro, non alzare il tono, non aggredire, non insultare, non reagisce con l’ostruzionismo, ma mantenere la sua condotta normale e tranquilla.
Questo non significa diventare impassibili, crearsi un muro che ci separa dal mondo, ma nemmeno lasciarsi condurre dalla reazione del momento. Si tratta qui di sapere ascoltare se stessi e l’altro, di sapersi perdonare e saper perdonare, di capirsi e capire per poi agire per il bene nostro e dell’altro.
In definitiva spesso, soprattutto nelle liti banali che però possono portare a conseguenze pesanti, non è sbagliata la critica o l’osservazione che viene fatta, è sbagliato il modo, cioè l’azione di chi attacca e la reazione di chi si sente attaccato. Spetta a me fare la mia parte, cioè dimostrare che agendo in un determinato modo aggressivo non si ottiene la reazione desiderata.
“Non permettere che le persone ti spingano nella loro tempesta. Portale nella tua pace.” Reagire è lasciarsi portare nella tempesta, agire è restare nella propria pace e magari indicare la via per entrarvi anche agli altri.

                                                                                          Maria Rosa Brian

3/02/2015

Uscire dalla disperazione

A volte sembra proprio che la vita, o Chi per lei, si accanisca contro le persone addossando loro pesi insopportabili. Davanti a certe situazioni c’è veramente da restare senza fiato. Potrebbe sembrare normale e scontato uscirsene con un: «Perché ancora?!», a cui non c’è risposta, con il rischio di trarre conclusioni nostre e tirando in campo un dio cieco e sordo che punisce chissà quale colpa, o il caso infausto e impazzito che non lascia scampo né spiegazioni.
L’accompagnatore stesso per primo ne è scandalizzato e intimorito, non sa cosa dire e cosa fare… finché non si lascia essere semplicemente amore, abbandonando giudizi e recriminazioni, smettendo di cercare e volere soluzioni e spiegazioni.
Nell’ascoltare queste situazioni, deve lasciare che la persona possa sfogare le proprie emozioni: la rabbia, la paura, l’angoscia devono potersi dire, devono poter essere urlate, piante, gettate addosso a Dio e a chi glielo sta rendendo presente. Una prospettiva di speranza, fatta balenare troppo presto, fa sentire la persona non capita, non accolta nell’immensità del suo dolore. Come pure certe frasi troppo semplicistiche e scontate la fanno cadere nella rabbia e nella solitudine. «Non c’è bisogno che mi dici che Dio mi ama, che sono forte, che imparerò chissà cosa da questo dramma che sto vivendo. Ho bisogno di sentirlo questo Dio, di viverla questa vicinanza, fisicamente ed emotivamente»: questo è ciò che dice, più o meno verbalmente, chi sta in una sofferenza.
L’accompagnatore, attraverso la propria accoglienza, muta e, al limite, espressa in qualche gesto, può permettere alla persona di sentire che c’è un’Accoglienza, una Vicinanza a ciò che sta vivendo; e così essa, pian piano, permette a Dio di starle accanto senza più accusarlo e bestemmiarlo.
L’accompagnatore si fa dunque tramite di questo incontro: è l’abbraccio di Dio, è mediazione di Dio.  Di un Dio crocifisso e risorto.

Di un Dio crocifisso ho bisogno per sentire che non sono solo e non sono il solo ad affrontare il peso di un mondo che mi è caduto addosso. A questo Dio come me schiacciato e impotente posso cominciare a parlare per capire con Lui cosa posso fare. Lui ha già percorso questa strada, sperimentando che ogni morte vissuta con un po’ di fede, con un po’ di speranza, con un po’ d’amore si apre a una vita nuova, diversa, spesso insperata. E’ un Dio risorto! La speranza allora è questa: se Lui, che ora è in croce con me, è risorto, io con Lui posso e voglio risorgere…
Una prospettiva, questa, attraente ma comunque pesante per chi ha solo la forza di sopravvivere. E, allora, “momento per momento…”. Non riesco a farmi programmi, a pormi obiettivi, ma, “momento per momento”, posso pensare e fare quel piccolo passo che è a mia misura su questa strada che, pur recalcitrando, voglio far mia perché l’unica su cui intravedo una speranza. Quando si è dentro ad una situazione che sembra senza soluzioni, è inutile fare progetti a lungo termine; meglio, piuttosto, guardare alla cosa più imminente da affrontare. Anche questa è speranza: non lasciarsi prendere dall’angoscia del futuro, ma fidarsi di un Dio che in qualche modo, magari incomprensibile per ora, è presente e accanto a me per aiutarmi a fare il prossimo passo.

L’accompagnatore fa quello che è nella sua capacità di fare ricordando bene che a ognuno compete il proprio campo di azione: lui non può fare tutto, ma solo ciò che è nelle sue competenze. Il pericolo è di voler strafare rischiando di non fare neanche quello che è nelle sue possibilità e, allo stesso tempo, di far venir meno l’aiuto di altri competenti in materia. Ecco allora che, spesso, il passo successivo è semplicemente affrontare l’urgenza, riferendo la persona a specifiche professionalità che possano dare una risposta ai problemi che si trova a vivere; o, ancora, attivando una rete di solidarietà che possa alleggerire il carico che la sta schiacciando.

Altre volte la situazione non è così tragica, ma può comunque amareggiare e non avere prospettive d’uscita. Il rischio è quello di sprofondare nella depressione, nella recriminazione, nel desiderio di vendetta contro chi me l’ha creata.
Alzare lo sguardo è allora la prima cosa da fare: c’è altro e c’è un Altro!
Il problema c’è, ma non è il tutto della mia vita. A volte può bastare accorgermi che è una bella giornata di sole, che non mi mancano l’ascolto e la parola di un amico, che dal mio cuore e dalle mie mani sono uscite tante cose belle…
E poi ho con Chi parlarne: non è già questo un sollievo? Poter contare su un Dio che mi dice «Non temere: io sono con te» e con la sua vicinanza nutre in me la speranza, la fiducia, l’amore…
Darmi tempo è la seconda mossa appropriata alla situazione. Le emozioni violente e istintive influenzano le prime ipotesi di reazione, per poi calmarsi e lasciare via via più spazio alla razionalità, alla creatività, a una bontà fattiva e concreta, anche se pungente per l’amor proprio. E’ un po’ un dare spazio a quella nostalgia di Dio che mi riporta accanto a Lui, che mai si è staccato dal mio fianco, voce di sottile silenzio che suggerisce al cuore in tumulto quel che è vero.
Infine, per riemergere è importante prendere in mano la situazione e non sentirmene vittima impotente: pur tra le macerie, decido cosa fare e lo faccio! La vicinanza di Dio è per rimettermi in piedi a lottare, non un rifugio che mi evita di impegnarmi. Dopo aver rinunciato a reagire d’istinto, posso pensare, per agire con intelligenza e creatività. Una strada che si chiude mi obbliga a guardarmi attorno e mi fa scoprire l’esistenza di altre che mai avevo considerato; e potrei arrivare a “benedire” la mia disgrazia, che si rivela porta di accesso a qualcosa di meglio. In ogni caso, lo spazio di protagonismo che mi ricavo mi fa sentire vivo e alla guida della mia vita.
E, nel frattempo, decido anche di volermi bene: regalandomi quel che rallegra onestamente il mio cuore o tornando a impegnarmi in ciò che mi appassiona scopro che un Altro mi dona tanto altro per rendere bella e piena la mia vita.

Maria Rosa Brian
Michele Bortignon




2/09/2015

Reagire alle manipolazioni

Ci sono vari modi di proporre una scelta: uno è quello di presentarne gli aspetti positivi, che la rendono attraente, e lasciare alla persona il valutarla tenendo conto della propria situazione; un altro è creare nella persona delle emozioni condizionanti puntando sul suo bisogno di essere accettata, apprezzata, benvoluta, non esclusa. I sensi di colpa sono adattissimi allo scopo: c’è il bisogno, tu hai le capacità per soddisfarlo (e fin qui va bene: è un riconoscimento della realtà), la situazione esige quest’attività (già qui si inserisce un elemento di valutazione personale da parte di chi propone, che richiederebbe l’accordo di chi accetta), ce lo devi (sottinteso: altrimenti sei un ingrato, sei un traditore, ci abbandoni in un sacco di problemi) e lo devi alla tua scelta cristiana (sottinteso: altrimenti sei un incoerente, uno che parla e poi non fa, anzi, che fa diversamente da come dovrebbe).
La costruzione del discorso ha una sua logica, per cui si presenta convincente. A svelarlo come tentativo di manipolazione è il fatto che la persona si sente obbligata, senza alternative, prigioniera in un vicolo cieco, timorosa di come può reagire chi le sta facendo la proposta. E la gratificazione, che pur sente nell’accettare, non le dà pace.
Una dinamica molto simile si ha quando si tenta di impedire a una persona di uscire da una situazione con la quale non si sente più in sintonia. Anche in questo caso viene irretita con i sensi di colpa dal suo manipolatore, che le succhia la vita goccia a goccia, giorno per giorno.
Non si tratta qui di demonizzare il manipolatore (quasi sempre anch’egli vittima di un’analoga coercizione, per cui crede vero ciò che sta facendo e si sente in buona fede), ma di difendersi dalla manipolazione.
Quando ci si trova all’interno di una situazione del genere, non è possibile fare discernimento, perché l’oggetto della scelta è presentato in maniera falsata e falsati sono, di conseguenza, i sentimenti che proviamo, per cui non possiamo assumerli come criteri che possono orientarci nella nostra scelta. Ci troviamo in una condizione che, per molti versi, è analoga alla desolazione, per cui valgono le stesse regole di comportamento (Ignazio di Loyola, Esercizi Spirituali n. 317 e ss): non fare cambiamenti finché ci troviamo in questo stato d’animo e cercare di capire, anche facendosi aiutare, quel che stiamo vivendo.
Nello spirito dell’ “agere contra”, quanto più siamo preda di forti emozioni, tanto più dovremmo cercare di affidarci alla fredda razionalità. Utilizziamo dunque il ragionamento per chiarire le alternative di scelta in ciò che comportano a livello di impegno e di conseguenze per noi e per gli altri, all’interno del progetto di vita che ci siamo dati e della vocazione dei valori che sentiamo forti. Solo quando abbiamo delineato in maniera chiara ed esaustiva le due alternative, possiamo porci in ascolto dei sentimenti che l’una e l’altra suscitano in noi, per farcene orientare nel discernimento.

Un’attenzione per la fase di indagine: essere flessibili e creativi. Mettendoci in questa disposizione, spesso si riesce a trovare soluzioni intermedie che accontentano le esigenze di entrambi, al di là delle richieste iniziali.

                                                                                Michele Bortignon

1/13/2015

Accompagnare… fino alla fine

Non siamo noi che ci scegliamo i genitori e nemmeno abbiamo scelto i nostri figli.
Ecco, è lo stesso nell’accompagnamento spirituale: non sei tu che scegli chi accompagnare, ti vengono affidate delle persone; dal caso? Dalla vita? Da Qualcuno?
Quando ho saputo che quella persona che iniziava gli esercizi Kaire con me era ammalata di cancro, ammetto che il primo pensiero che ho avuto e stato: «Oddio, e se muore? Se la devo accompagnare fino alla fine? Io non lo so fare, non l’ho mai fatto, non so come si fa, non ne ho la forza e tanto meno il coraggio, non ho neanche la capacità e la preparazione».
Ho capito solo più tardi che è come con i figli: si diventa genitori grazie a loro, si cresce e si impara con loro e il maestro si chiama Amore.
Così è stato, lei ha saputo sviluppare in me risorse che non sapevo di avere, ha tirato fuori dal mio cuore e dalla mia fantasia ciò che serviva a lei e a me. Ho capito che, alla fine, a fare è appunto l’Amore, e che questo è effettivamente una forza che muove le montagne.
Mi sono trovata a percorrere corridoi d’ospedale e mi dicevo: «Ma che ci faccio io qui? Non sono neppure parente e la conosco da così poco!». Eppure mi rendevo conto che per me era ed è come una figlia e che non avrei voluto né tanto meno potuto essere altrove: il mio posto era là con lei quando potevo e appena potevo. E, proprio come un figlio plasma il genitore, lei ha fatto crescere me. Mi trovavo vicino a lei, chi avevo accompagnata, riversa in un letto di ospedale. Non servivano più né schede, né esercizi: era l’Amore, la sua stanchezza o capacità di attenzione, o il suo stato del momento, più o meno presente, a dettare il dialogo giusto, quello che si doveva fare o dire, ciò di cui c’era bisogno. E le parole spesso erano il modo di comunicare meno importante e necessario. Ogni volta me ne andavo con il cuore gonfio, mi sembrava di infliggermi un dolore difficile da sopportare, ma nello stesso tempo il mio cuore era anche colmo di dolcezza, di pace e della certezza che l’amore di cui ci facevamo dono reciproco era importante, necessario. Come l’ossigeno la aiutava a respirare, io potevo essere un po’ di ossigeno per la sua anima, potevo essere colei che portava speranza. E intanto cercavo di capire, oppure rinunciavo a capire; cercavo risposte, ma trovavo solo domande. Interrogavo un Dio che mi rispondeva a modo Suo: non come io avrei voluto, ma come a me serviva in quel momento.
Ma tutto quello che ho raccontato sin ora è solo il finale del mio accompagnarla, è solo la soglia della porta che lei ha aperto per passare oltre. Prima c’è tutto un cammino fatto insieme quando ancora era a casa, ci sono stati tanti passi verso una consapevolezza piena e serena di ciò che stava accadendo e che non è mai rassegnazione, ma lotta e voglia di vivere sino alla fine. C’è stato un “pianificare”, un preparare insieme che ha contribuito a darle un po’ più di serenità. E anche allora il mio andare da lei era come dice Gesù “Non procuratevi oro né argento né denaro nelle vostre cinture, né sacca da viaggio, né due tuniche, né sandali, né bastone.” (Mt 10,9.10): non c’era bisogno di preparare il dialogo, di portare parole, di sfoderare frasi fatte, no, nulla di tutto ciò: era l’amore a suggerire, a costruire il colloquio: si coglieva ciò di cui c’era bisogno.
Dentro di me, allora e fino alla fine, un dolore a chiudermi lo stomaco, una rabbia che pretendeva di capire il perché; e poi un affidarmi e un fidarmi di ciò che non capivo. Per me era tutto insignificante e assurdo… eppure… eppure, ora che è morta, ancora non capisco e mai troverò risposta a certe domande. Ma ora so e mi sembra di aver capito che alla fine ciò che resta è solo l’amore: amore dato e amore ricevuto. Non siamo noi il centro del mondo: facciamo qualche passo nel palcoscenico della vita, abbiamo la nostra parte che può essere più o meno lunga, più o meno importante. Ci viene chiesto di fare quei passi danzando con gusto, con passione, con gioia e con amore. Ci viene data la possibilità di muovere i nostri passi tenendoci per mano gli uni con gli altri e in quell’intreccio di mani sentire il calore della mano di Dio.
Ecco, questo è che mi auguro il Kaire sia riuscito a darti, carissima “figlia” mia.



Giorni in prestito

Vorrei…vorrei una banca del tempo
che presti giorni.

Ipotecherei i miei,
per darli a te: figlia amica sorella.
Me li restituirai quando di giorni sarai sazia,
e non saprai più che fartene di tanta grazia.

Ora quei giorni li useresti bene,
 garantisco io per te: figlia amica sorella.
Li sapresti spremere come limoni maturi,
li sapresti gustare e assaporare.

Del tempo una banca vorrei che presti giorni,
per te che li sai vivere: figlia amica sorella.
Un assegno in bianco per te staccherei,
scrivi tu l’importo: preleva pure tanti giorni miei.

Una banca vorrei che presti giorni,
ma non solo a te: figlia amica sorella.
Che presti giorni a chi, come te, ha voglia di usarli,
di viverli bene e consumarli.

Vorrei… vorrei darti giorni miei.
Ma riesco solo a tenerti per mano.


                                                                                       Maria Rosa Brian