12/22/2016

Annunciatori di gioia


L’angelo, nel vangelo di Luca, avvisa i pastori di un avvenimento normalissimo: la nascita di un bambino (Lc 2,9-13). 
Eppure, a saper guardare la quotidianità con occhi nuovi, questa ci parla e ci rimanda a qualcosa di più grande: si tratta semplicemente di “andare a vedere”, come i pastori (Lc 2,15-16).
Ed ecco che chi “va a vedere” e  fa esperienza di “qualcosa di grande”, non può più trattenere ciò che gli riempie il cuore e, proprio come i pastori, va ed annuncia (Lc 2,17).

Siamo partiti da una riflessione sul nostro vissuto, da una domanda che ci siamo posti, per augurare anche a te in questo Natale di andare, vedere, annunciare.

"Vi annuncio una grande gioia” (Lc 2,10)
Qual è il messaggio di gioia che ho vissuto e che quindi
  non posso non annunciare?

Ho trovato la pace che cercavo e,
anche se niente è semplice, VIVO!
Grazie a GESU' che mi ha fatto andare oltre....
e mi ha gridato con gioia
TI ASPETTAVO!!
Pasqualina
La gioia di sapere che si può
sempre ricominciare: e soprattutto che
è oggi il giorno per farlo!
Maria Rosa
Vi annuncio una grande gioia...
il Signore mi ha detto:
"Ho bisogno proprio di te
per realizzare il mio progetto; CORAGGIO!"
Katia

Durante la giornata,
tra mille problemi e difficoltà,
avere l’opportunità di congiungere le mani in una preghiera
che mi ridà pace e fiducia per continuare
il mio percorso di vita con un compagno prezioso
e affidabile in ogni occasione.
Lisa
Il mio messaggio di gioia viene dalla fede e dal kaire.
Il ”non temere io sono con te” mi dà una grande gioia e una grande serenità;
perciò non posso che annunciarlo.
Anna

Il mio messaggio di gioia è l’aver scoperto un amore nuovo e molto potente, un’energia feconda, amorevole, accogliente, uno spirito santo che mi riempie da dentro inspiegabilmente e che mi fa trovare luce nonostante i meandri dei silenzi e vuoti più bui.
Un amore che condivide la mia gioia e sostiene i miei dolori, che mi eleva con ali dorate nel cielo nella letizia del vivere e mi accompagna negli inferi quando la vita mi sbatte all’inferno. Comunque sempre insieme, sempre con rinnovata forza, con rinnovata fiducia, rinnovato amore dopo il discernimento e la meditazione insieme.
La gioia più grande è sapere di non essere soli, sapere che qualcuno nel profondo dell’animo ti aggancia irrimediabilmente e ti tende una mano, ed è con te, per te, in te… e allora comprendi che ad ogni piccola morte seguirà una nuova rinascita, che non c’è fine, che la tua fede è così potente e viscerale dentro di te, che tutto potrà essere accettato, compreso, reso fertile… il miracolo è compiuto quando Dio ti trova e noi troviamo lui! Grazie!!
Rita

La gioia grande che voglio condividere in questo Natale è
la consapevolezza che Dio è AMORE,
e imparare a conoscerlo vuol dire imparare ad amare.
Questa è la mia gioia più grande.
Alessandra

La mia più grande gioia è
sapere che Dio mi ama esattamente così come sono;
sapere che sono preziosa ai suoi occhi,
che valgo quanto un tesoro
e che sono così importante da essere aspettata,
cercata ed amata sempre...
soprattutto quando me lo "merito" meno!
Renata
Io gioisco quando condivido 
ciò che sono
e ciò che ho con gli altri nella quotidianità.
Domenico

Cosa suscita in te avere davanti
un bambino piccolo?
Tenerezza, bellezza, senso di protezione,
gioia, stupore, desiderio di tenerlo in braccio.
È questo il modo in cui ti entra nel cuore e ti fa suo.
Col Natale Dio ci dice che così vuole incontrarci.
Suscitando affetto. 
Ogni altro modo non è da Lui.
Michele

Quando ero piccolo i miei zii mi raccontavano come ai loro tempi, tra i pochi giochi che avevano, andava molto quello delle trottole. Adesso i tempi sono cambiati, ci sono mille altri giochi che affollano la mente dei bambini e nessuno oserebbe chiedere un gioco così in dono; eppure se guardo una trottola penso rappresenti molto bene la mia vita: un continuo corre o, per meglio dire, girare tra lavoro ed impegni vari, con il rischio che gli incontri diventino scontri, che sottraggono energie e che alla fine mi buttino a terra. Ripartire non è semplice... oppure sì, bastano le due dita di un Bambino; quello stesso Bambino che mi dice: «non temere io sono al tuo fianco per ricominciare ancora una volta, come una nuova nascita».  Qualche volta stento a crederci, sembra troppo grande quasi impossibile, ma più sono dubbioso e più Lui mi sa stupire, dando nuova linfa al mio cuore.
Enrico

La voce del bimbo mi chiama.
Mi immergo nella sua purezza, nel suo candore, nella sua fonte di saggezza.
Mi chiama per nome e mi invita a giocare, a lasciare andare il mio rincorrere il mondo importante.
Lo guardo, mi ascolto.
Lo guardo, ho consapevolezza.
Un fiume di parole mi scorre vicino, ma contemplo, mi inebrio di questa visione.
Luce, quanta luce, ma non mi acceca, mi riscalda.
Il Bimbo è il tutto, sintesi e armonia dell’universo.
Mi immergo nel suo amore, mi avvolgo nel suo abbraccio.
Ti vedo, re dei re, scudo forte, verità, fermezza…
Lo sento; annuso, mi placo.
Assaporo il buon profumo, la freschezza, l’autenticità.
Lo tocco; sfioro il tepore, mi riscaldo.
Faccio tesoro del calore, lo serbo.
Infine lo ascolto, non sono parole, ma suoni per la mia mente, meraviglia sonora.
Bimbo, mio bimbo, tenero bimbo gigante.
Grandioso. Tenero.
Coperta d’amore, cullami con il tuo tepore.
Betti

12/01/2016

Misericordia... lasciamo la parola a Dio

All’inizio di quest’anno dedicato dalla Chiesa alla misericordia, ci eravamo detti quasi per scherzo: «Sarebbe bello che tutti gli articoli del nostro blog nel 2016 parlassero della misericordia!». Siamo giunti alla fine dell’anno e dobbiamo ringraziare il Signore perché ha continuato a ispirarci al riguardo.
Ma forse ancora non abbiamo riflettuto su cos’è la misericordia dal punto di vista di Dio. E allora proviamo a chiederglielo e facciamocelo dire da Lui.

«Quando vedo che vai a farti male, sento come una fitta al cuore per la preoccupazione. Vorrei richiamarti indietro, avvertirti in qualche modo, mettermi in mezzo e fermarti… ma, con un figlio adulto, amore è rispettare le sue decisioni. E, allora, aspetto. Senza perderti di vista, pregandoti (Oh sì, anch’io so farlo! Non senti come mi aggrappo alla tua coscienza?) di fermarti almeno in tempo per non farti troppo male.
Ma quel che più mi strazia il cuore è vederti, dopo la caduta, calpestato dal mio e tuo Nemico, che ti suggerisce beffardamente che io ti ho abbandonato perché tu mi hai abbandonato, che ti sei reso indegno del mio sguardo.Sion ha detto: «Il Signore mi ha abbandonato, il Signore mi ha dimenticato». Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se queste donne si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai” (Is 49, 14-15).
E allora ti faccio una proposta. Ma guarda che ci tengo! Anche mentre stai facendo qualcosa di sbagliato – non importa se ti fai schifo o ti fa schifo quel che stai facendo… – chiamami vicino a te, lasciami stare vicino a te. Io voglio comunque esserci in quel che stai facendo, perché tu possa parlarmene, piangere con me, anche urlare la tua incapacità di uscirne, ma… con me.
Non ti rimprovererò – lo stai già facendo tu da solo! –: voglio solo abbracciarti per farti sentire tutto il calore della mia tenerezza, la dolcezza del bene e del bello che in tutto ti circonda e ti parla del mio amore. Sarà la nostalgia della bellezza a riportarti alle giuste scelte, quelle che ti fanno bene.
Lo so che quando ti prende la compulsione tu vedi solo quello che vuoi fare e, dopo, vedi solo quel che hai fatto. Vuoi sapere come faccio a fare misericordia? Aiutandoti a contestualizzare. Forse quel che hai fatto è un’eccezione rispetto a quel che sei sempre stato e a quel che vuoi essere. E allora non drammatizzare. Torna a me e ricominciamo a camminare assieme. Come? Anche qui contestualizzando: guarda se quel che vuoi fare si inserisce in ciò che sei stato finora e che vuoi essere. Ti aiuta a essere più te stesso? E’ questo che tu davvero desideri per te, pensando a domani, quando ti volterai a guardare l’oggi?
In ogni caso, quando ancora ti riprendesse la compulsione e di nuovo vedessi solo quel che vuoi fare, balbettami il tuo smarrimento, la tua paura, la tua voglia / non voglia che io sia lì con te. Ma parlami. Anche se dopo andrai avanti per la tua strada. Parlami. Sarà il sottile legame che ci permetterà di restare ancorati alla speranza, Perché anche tu sai che la mia strada è anche la tua, anche se adesso non hai la forza di mettertici.
E, quando ti è passato, non fermarti a ravvoltolarti nello schifo di te stesso: voglio che tu sia con me, anche dopo quel che hai fatto, per parlare agli altri della tua Verità – che sono io! – e così confermarti che quello è il tuo nucleo fondante. Quello sei tu e quello sono io. Tu sei mio figlio. Io sono tuo padre».


                                                                                  Michele Bortignon

11/05/2016

La misericordia raccontata da chi ne ha fatto esperienza


Una parafrasi di Lc 7,36-46

Lo sapevano tutti che quel giovane Rabbi sarebbe stato ospite in casa di Simone il fariseo. Non so nemmeno io perché decisi di passare ed osai entrare. Avevo bisogno di sentirmi perdonata e prima ancora di essere amata; amata in un modo nuovo, guardata in un modo nuovo. Ero stanca dello sguardo accusatore della gente e di quello ammiccante degli uomini. Avevo bisogno di uno sguardo diverso, di qualcuno che sapesse e riuscisse ad andare oltre a quello che tutti vedevano: la pubblica peccatrice. Che ne sapevano loro della mia storia, del mio malessere, di come mi sentivo? Che ne sapevano loro del peso atroce sulle mie spalle, del mio bisogno di togliermi di dosso il fardello dei miei peccati?
Avevo sentito che questo maestro di nome Gesù era diverso, aveva rispetto delle donne, le considerava come nessun altro: delle persone.
Entrai in casa di Simone. Non sapevo che dire, parlavano già i loro sguardi. Come chiedere perdono? Gli occhi di tutti erano puntati su di me: io donna -e che donna!- in mezzo a loro, uomini rispettabili secondo la legge. I loro occhi mi spogliavano, non solo dei vestiti, ma anche di quel briciolo di rispetto umano che pensavo di meritare. Mi misi in un angolino dietro a Gesù e non riuscii a far altro che piangere ai suoi piedi tutte le lacrime che mi erano restate. Piangevo e ungevo i suoi piedi di olio profumato, piangevo e li bagnavo di lacrime, piangevo e li asciugavo con i miei capelli, piangevo e baciavo i suoi piedi. Che altro potevo fare? Non avevo parole per chiedere perdono, non avevo scuse, giustificazioni, frasi fatte. Cercavo solo un po’ di amore, amore vero.
Poi non so che cosa è successo, Gesù parlava con Simone, e intanto lasciava che mi occupassi di Lui, che gli dimostrassi il mio amore e il mio bisogno di perdono come potevo e come sapevo. Ricordo solo le parole che mi ha rivolto guardandomi negli occhi e prendendo le mie mani: gesti che nessuno faceva più da tanto tempo con me. La Sua voce era dolce e autorevole, i suoi occhi profondi. Occhi che ti scrutano sino nel profondo del cuore, voce che muove le corde della tua anima. Ciò che Gesù mi ha detto non lo scorderò mai più: «I tuoi peccati sono perdonati, la tua fede ti ha salvata; va’ in pace».
Sono uscita dalla casa di Simone leggera, con lo sguardo alto, la schiena dritta.  Perdonata… ero stata perdonata: il mio peccato non c’era più, era condonato, stracciata per sempre la cambiale, volatilizzato il macigno che mi opprimeva il cuore. Il mio cuore, un cuore nuovo, un cuore che sapeva, ora, amare in modo nuovo perché, ora, si sentiva amato e perdonato prima ancora di aver chiesto amore e perdono. Ero in pace sì, non sapevo se sarei riuscita a non peccare più, Gesù non lo ha preteso, conosceva i miei limiti e le mie miserie. Ma ora io, più di ogni altra cosa, conoscevo la Sua misericordia ed è questo che fa la differenza!

                                                                                                  Maria Rosa Brian

10/13/2016

Misericordia io voglio, e non sacrificio…

Purezza: è proprio vero che Dio ci vuole senza macchia di peccato e solo così è contento di noi? Come potrebbe pretendere questo da chi ha calato in mezzo ai problemi della vita, già condizionato in partenza dalla storia in cui si è trovato a vivere?
La comunione con Sé a cui ci chiama non è premio a un sovrumano sforzo di adeguamento, ma un cambiamento di cui nemmeno ci rendiamo conto quando ci accorgiamo di essere immersi in una bellezza di cui noi stessi facciamo parte e a cui permettiamo di scaldarci il cuore. E, in questa trasformazione, la sua misericordia agisce aiutandoci a lasciare a Lui gli sbagli che ci amareggiano e ci appesantiscono, per tornare a guardare alla vita con animo vergine e pieno di Lui.
Allora, forse, purezza non è quell’impeccabilità che ci rende esempi dell’impossibile, ma l’umiltà di chi rende le proprie piaghe finestre sulla grazia di Dio, il suo povero voler bene trasparenza di un amore più grande.
«Belle parole!» starai pensando… «Però, nel momento stesso in cui il cuore si apre ad accoglierle, una vocina subdola mi suggerisce: “Ma se tu non fai niente, allora non sei nessuno: la santità la si costruisce eroicamente!”». E’ proprio qui che ti incontri con il più grande inganno nel cristianesimo: il volere e cercare di essere santi; inganno perché cerchiamo di farlo con i nostri criteri. Non siamo chiamati a essere Dio, ma ad amare come Dio. E se crediamo che Dio ama solo i perfetti, anche noi pretenderemo che gli altri siano perfetti per amarli. E ci mancherà la misericordia, che è il cuore e la tenerezza dell’amore; e il nostro amare sarà formale e volontaristico.

Perché allora vogliamo essere perfetti? Per sentire che valiamo qualcosa. E così l’essere amati ci è dovuto perché è meritato. E’ farci un’assicurazione sull’amore.
Essere – come tutti! – fragili e soggetti a cadute lo consideriamo una mediocrità inaccettabile. E la neghiamo rivestendoci di moralismo.

Ma… se proprio la misericordia e non la perfezione fosse santità per Dio? La tenerezza e non l’impeccabilità? Il capire e non il pretendere? Se Dio si aspettasse e rispettasse i nostri sbagli, considerandoli suoi alleati nella nostra crescita umana e spirituale? Se Dio ci amasse – noi, suoi figli – come noi amiamo i nostri figli, di un amore che ci rende uno con loro, cosicché niente da loro ci può separare?

Beh… se Dio è tutto questo, allora è davvero Dio e non il nome che noi diamo al nostro super-io.


                                                                                       Michele Bortignon

9/07/2016

Il peccato è un’esperienza spirituale?

O notte, sei stata tu la mia maestra.
O notte più luminosa del sole nel mattino.
O notte che mi unisci a Colui che amo
trasformandomi in Lui.

Qual è il significato della “notte oscura” di San Giovanni della Croce? Se fosse l’esperienza del peccato? L’oscurità del peccato, vissuta comunque con Dio, che comunque mi riempie e mi avvolge, diventa luce sulle parti di me stesso ancora abitate da altri che Lui, non ancora da Lui riempite e avvolte. Parti, soprattutto, in cui mi illudo di essere me stesso in Lui. Riempito e avvolto dai miei bisogni, difesi e alimentati dai miei impulsi istintivi, sono convinto delle mie ragioni.
Ma ecco che, nel fallimento del peccato, il senso di colpa scuote la mia presunzione di equilibrio, di perfezione. E mi ritrovo distante, separato da quel Dio-perfezione con cui mi sentivo prima integrato. Rigettato da un Dio che non mi riconosce più suo figlio? Ma questo non può essere Dio! “Anche se tua madre ti abbandonasse, io non ti abbandonerò mai; ho scritto il tuo nome sul palmo della mia mano” (Is 49, 15-16 cfr.). Forse, allora, il vero Dio è per me ancora soltanto una conoscenza teologica, mentre il dio di cui si traveste il super-io è avvinghiato alle radici del mio modo di essere, che gestisce con i suoi criteri, coniugando un’imperfezione di fatto, perché tesa a soddisfare i miei bisogni in maniera autocentrata, a un’idea di perfezione tagliata a mia misura per salvaguardare la mia autostima.
E allora è buono questo destabilizzante vuoto di Dio che diventa spazio per l’incarnarsi in esperienza del Dio ancora soltanto teoria teologica. Un Dio che ti si presenta proprio adesso, per abbracciarti nella tua nudità di perfezione, per ricostruirti come figlio con i cocci del tuo fallimento. Non subito però: prima è appunto bene che tu vada in cocci. Quella tua solidità, fittizia e saccente, deve rompersi sotto i colpi della sofferenza che provochi, che certo non appartiene al Dio che dici di seguire.
Ma, se davvero è il volto del Dio di misericordia quello che incontri, il miracolo che fa è quello di liberarti dalla compulsione a tornare ad essere perfetto. Compulsione che riconosci dal fatto che non riesci a trovare pace, ora, con Lui, ma solo se cambi.
Anche per il cambiamento c’è tempo. Altrimenti nasce da quel che sai, per rifare quel che hai sempre fatto. Lascia che quel che è giusto emerga, con voce sottile ma insistente, al di sopra dello strepito dei tuoi impulsi e delle altrui pressioni; anche ascoltando i tuoi bisogni, ma ora tenendo conto di quelli degli altri. E capisci che, mentre nella perfezione tutto è bianco o è nero, con Dio… dipende da come e perché è fatto; alla legge subentra lo Spirito e il discernimento.
Ecco allora che la notte oscura è diventata un tratto luminoso della tua storia con Dio: ti ha strappato al dominio dell’io inconscio e super-conscio per affidarti alla libertà del Dio che è dentro di te e sopra di te, comune istanza di amore e di verità.
Concludendo, se, tenendoti comunque aggrappato a Dio, non ti lasci distruggere dai sensi di colpa o bloccare dallo scoraggiamento, il peccato diventa la più trasformante delle esperienze spirituali, certamente l’unica in cui Dio si manifesta al di là di tutti i nostri filtri.


                                                                                 Michele Bortignon

8/02/2016

Superare con la fede il culmine della tentazione

“Anche la cima che sovrasta la più irragionevole parete ci invita a salire. E se noi riusciremo a vincerla, la gioia del successo sarà intimamente più bella”.
                                                                                                           Emilio Comici

Prendi un viaggio, mettilo dentro ad una giornata di inizio primavera con un sole tiepido, l’aria profumata di fiori ed erba nuova; aggiungici un pizzico di vento leggero e mettici anche una strada ampia, pianeggiante, senza traffico: perfetta. Ma, all’improvviso, lo scenario, come in un sogno che diventa incubo, cambia: ti ritrovi dentro ad  una notte buia, fredda, senza luna né stelle; aggiungici una strada che non conosci. All’inizio, quando l’hai imboccata, sembrava larga, pianeggiante, ben illuminata, ma poi si fa malferma, accidentata, insicura. L’unica certezza che hai è la meta; sai che è buona, ma non sai se percorrendo quella strada riuscirai ad arrivarci, oppure se finirai fuori, scaraventata in un dirupo che ti lascerà conseguenze permanenti.
Un bene in prospettiva e un pericolo nell’immediato... cosa fai? Ti fermi e non prosegui per non rischiare? Prosegui ingessata dalla paura fra mille precauzioni col rischio di perdere eventuali bellezze e lezioni dal viaggio? Oppure vai avanti, impavida, costi quel che costi, troppo bella la meta  per non rischiare di raggiungerla?
Ecco, quella che potrebbe essere la scena di un film o la pagina di un libro può accadere anche nella vita spirituale, soprattutto quando si raggiungono determinate altezze: la meta è buona, ma la strada diventa non più sicura o semplice come credevi, ma insidiata dalle tentazioni. Sembra quasi che il demonio, messo all’angolo dalla tua capacità di discernimento e dall’acquisita capacità di gestire i suoi inganni, che ormai conosci bene, si diverta ora a scatenarti contro situazioni impreviste, a cui non sei preparata, e che ti spaventano con la loro potenza. Che fai allora? Riprendiamo le tre possibilità individuate:

1. Ti fermi: troppo rischioso proseguire. Perdo un bene possibile per non rischiare di cadere nel male. Effettivamente sembrerebbe la soluzione più sensata, ma così facendo assecondi lo spirito del male, che vince raggiungendo il suo scopo: ti ha di fatto bloccato, impedendoti di proseguire nella ricerca del bene.

2. Prosegui fra mille paure e mille attenzioni, limitandoti la libertà, la spontaneità e la naturalezza per non rischiare. Il risultato è che perdi anche occasioni importanti di crescita ed esperienza: è infatti proprio dagli errori, dagli scivoloni che impari a rialzarti e ad afferrare la mano di Chi ti dice: “Non temere io Sono con te”. Anche in questo caso ad averla vinta è lo spirito del male che riesce a limitare il possibile bene che puoi ricavare anche dalla lezione che la vita ti sta impartendo in presa diretta e a non farti sperimentare un Dio misericordioso che ti è vicino nella prova.

3. Vai avanti per fede, credendo che “Sul monte il Signore provvede»” (Gen 22,14). Come Abramo ti fidi, brancoli nel buio, non vedi a un palmo dal naso, ti sembra tutto sbagliato, tutto troppo pericoloso, ma una vocina dentro di te ti dice di andare avanti, che non sei da sola, che la meta è troppo bella per non essere raggiunta. Quello che hai ricevuto e dato finora è stato troppo bello, troppo buono per non riconoscervi la mano di Dio. E allora ti fidi che Lui continuerà ad esserci, ché non vuole lasciare incompiuta l’opera iniziata in te e attraverso di te: stai  portando avanti qualcosa che non ti appartiene, che non è solo “roba tua”, ma che è anche nel cuore di Dio. Lui sa cosa permettere e cosa no e come recuperare ciò che a noi sembrerebbe irrimediabile.

A volte ci sono cose che il buon senso o la paura bocciano come sbagliate e pericolose, ma che la fede, aiutata dal discernimento, intuisce essere troppo belle e grandi per non lasciarle volare. Certo… potresti cadere! Ma che Dio sarebbe quello che non ti raccoglie e non ti fa volare sulle sue ali finché tu non abbia reimparato a farlo da sola?
                                                                                                     Maria Rosa Brian

7/10/2016

Dov’è il limite?

Quante volte ti sei chiesto dove fosse il limite del lecito e del buono in un comportamento di cui vedevi sia le opportunità che i rischi? Quante volte ti sei trovato a un bivio senza saperti decidere, perché da una parte si prospettava il rimorso per aver colto quell’occasione e dall’altro il rimpianto per non averla colta? E intanto ti risuonava negli orecchi l’eco della tentazione primigenia, a presentare Dio come un despota che ti priva del gusto della vita: “E’ vero che Dio vi ha detto che non potete mangiare di nessun albero del giardino?”. E davanti a un Dio così o ti blocchi, terrorizzato di sbagliare, o ti ribelli, buttandoti nel peggio che ti trovi davanti.
O tutto o niente: questa è l’alternativa davanti alla quale ti pone il serpente; e sa benissimo che entrambe le scelte ti conducono in bocca a lui.
Prova a notare: entrambe le strade ti angosciano e ti lasciano insoddisfatto. In entrambe, il primo passo è il compiacimento – o per la tua capacità di resistere alla tentazione o per il piacere ottenuto nell’assecondarla – e il successivo è la depressione – per una vita senza gusto o per il disgusto di quanto hai fatto.
Nota anche che entrambe le alternative sono molto “pensate”: quanto tempo hai passato a dare spazio a “seghe mentali” che ti dicevano di si e di no e ancora di no e di si, e niente ti lasciava pienamente convinto, anche se a momenti spinto con entusiasmo verso l’una o verso l’altra?
Da tempo ho imparato (anche se ancora non ci arrivo subito!) che quella di Dio è la terza via. Dio non ti spinge e non ti strattona, ma danza davanti a te e ti invita a danzare con Lui. Dio danza la vita: non la evita né la travolge, ma si muove con eleganza per creare bellezza. Sa mettere i piedi al posto giusto: nulla è buono o cattivo in blocco, ma in tutto c’è del buono da cogliere e del cattivo a cui girare attorno.
Ultimamente sono riuscito a penetrare meglio il significato di questa terza via considerando quanto Ignazio di Loyola dice riguardo alla consolazione senza causa (EESS 336): c’è (secondo la definizione di consolazione in EESS 316) “un movimento intimo per cui l’anima resta infiammata nell’amore” che viene da Dio per grazia, così bello che, invece di accoglierne il compimento con un «Grazie!», se ne vuole prolungare l’effetto con considerazioni o propositi che però, provenendo da noi, ci portano per strade solo nostre. Allo stesso modo, ogni realtà è dono di Dio; c’è un momento in cui la gustiamo col cuore, con la mente, con il corpo, e tutto ciò che facciamo è un atto di lode che esprime gioia, gratitudine, esultanza. Ma, già un momento dopo, alla grazia succede la nostra responsabilità nel gestire questa realtà. Una responsabilità che ora deve far fronte alle pulsioni che vogliono trasformare il dono - che dà bellezza alla vita ed è dato per il bene comune -  in una proprietà da usare per soddisfare i nostri bisogni e il nostro esclusivo piacere. E tutto viene allora trasformato in mezzo per ottenere le tre S: Sesso, Soldi, Successo.
Praticamente, se il dono di Dio ci fa esclamare «Che bello!» o «Che buono!», l’uso che ne facciamo dovrebbe far esclamare a Lui «Che bello!» o «Che buono!». Diversamente, l’uso si trasforma in abuso: l’abuso di cibo, di alcool, della tua posizione nella società, delle tue relazioni personali, del tuo tempo, del tuo denaro, delle tue capacità, ecc..
Come evitare questo rischio? Per quanto abbiamo detto prima, attenzione ai pensieri che ti spingono e ti agitano: nascondono un tranello! Dio entra in te con calma forza, ti riempie di bellezza e di pace e ti trascina con Sé fuori di te, facendoti sentire che ciò che stai facendo è la cosa più giusta e più naturale del mondo. Se alla fine riesci a dirgli «Grazie!», certamente veniva da Lui.


Michele Bortignon

6/07/2016

Il rischio della perfezione

Perché un Dio misericordioso? Anzi, meglio: perché Dio non può che essere misericordioso? Il tuo credere che Dio sia giudice della tua perfezione e, conseguentemente, il tuo voler essere perfetto e credere di poterlo essere… che disumanità per te stesso e per gli altri!
Per te stesso: passi dall’autocompiacimento borioso quando ci riesci alla scoraggiante sensazione di disastro, di totale fallimento quando cadi, quando non ti senti all’altezza di ciò che dovresti essere.
Per gli altri: come lo sei tu, così devono essere perfetti anche loro. Senza nessuno sconto. E diventi implacabile nelle tue pretese, rovinando le relazioni, giudicando tutto e tutti.
Nel frattempo, però, le tue paure premono per essere tacitate, le tue pulsioni per essere soddisfatte… e allora cerchi di crearti un equilibrio fatto di compromessi, in cui pretendi di sentirti a posto salvando capra e cavoli. E’ la falsa coscienza, è quello che i padri dicevano “battezzare con nomi santi intenzioni e comportamenti cattivi”. Il che porta alla “sclerocardia”, all’indurimento del cuore, perché ascolti soltanto le tue ragioni, ti inventi regole tranquillizzanti nella loro “sostenibilità”, e diventi sordo a quella vocina che ti dice «No, forse così non va…!».
Ancora, la perfezione genera la paura di sbagliare e, questa, la rigidità nei comportamenti. Si dice che “il meglio è nemico del bene”; ed, effettivamente, una soluzione “vera” a volte la si trova abbandonando la legge – regola generale ma teorica – e guardando qual è il bene in quella situazione concreta, un bene a volte fuori dai canoni per una situazione fuori dai canoni. Uno bene a cui ti può guidare soltanto lo Spirito che condividi con Cristo quando decidi di risintonizzarti con Lui. Ma, per capire se davvero è un bene, a volte bisogna sperimentare, metterti nelle condizioni di poter valutare quel che fai a partire dalle conseguenze. E questo puoi farlo soltanto se credi in un Dio misericordioso.
Credere non è “Spero che sia così, ma non so”; credere è “Dev’essere per forza così, perché qui porta tutto il mio desiderio profondo, quello radicato in quella verità profonda di me che è Dio stesso”. E allora, se credi che Dio è misericordioso, ossia che non ti abbandona qualunque cosa tu faccia, non ti butta via quando sbagli, allora puoi permetterti di cercare nella vita che cosa dà Vita. Sapendo che può anche capitarti di sbagliare, ma che con Lui puoi guardare, valutare e decidere se tenere o buttare via.
Dio ci ha affidati gli uni agli altri per essere Lui – Amore! – attraverso di noi. Se è questo ciò che stiamo facendo – esprimerci in un amore che ci fa sentire reciprocamente bene – siamo nella verità, e la Verità genera pace e bellezza. Se poi hai già un’esperienza di Dio, discernere è ancora più semplice: porta alla memoria del cuore il gusto di Dio, poi assaggia ciò che stai facendo: tieni ciò che ha il gusto di Dio e butta via il resto.
Nella misericordia del Padre, nella creatività dello Spirito, nella Verità di Cristo, cade allora il bisogno compulsivo di dare nomi spirituali a ciò che spirituale non è, ma fa semplicemente comodo. Quando poi ti succede di cadere, chiedi perdono e riprendi a camminare, ma non cercare di giustificare il tuo comportamento (la falsa coscienza) né lasciarti trascinare dal senso di tragedia (la desolazione). Né la ragione senza viscere né le viscere senza la ragione sono buone consigliere, ma la mente ben piantata nel cuore che ha il gusto di Dio: quando sbagli, Dio ti usa misericordia ridandoti il gusto di Sé.

                                                                                                                   Michele Bortignon

5/03/2016

Perché la misericordia?

Leggevo oggi che per gli italiani fare giustizia è far soffrire, attraverso il carcere, chi ha fatto soffrire. Il guaio è che 4 su 5 rientrano poi in prigione essendo tornati a commettere gli stessi reati, contro l’1 su 5 di chi è stato invece affidato ai servizi sociali. La stessa cosa sentivo dire riguardo alla pena di morte: negli stati che la praticano non si riscontra una minore incidenza di delitti. Sembra dunque che isolare e castigare non serva a recuperare chi ha sbagliato.
Quando Gesù dice “Non sono venuto per condannare il mondo, ma per salvarlo” (Gv 12, 47), sta affermando che non vuole isolare il peccatore, ma rimanergli accanto per recuperarlo.
Non sono però solo gli altri a isolare chi sbaglia: quando capita a noi di fare qualche stupidata, trascinati da impulsi che obbediscono alle nostre paure o alla nostra istintività, siamo noi stessi a isolarci: presi dallo scoraggiamento, ci sentiamo definiti da quell’unico atto sbagliato, come se questo avesse cancellato una storia di bene vissuto quotidianamente. Cosa fa allora Dio? Quando diciamo che la sua giustizia è la misericordia, semplicemente affermiamo che Egli guarda alla nostra vita nel suo complesso, al di là del singolo atto, e vuol salvaguardarne l’andamento, quella linea crescente costruita da gesti, scelte, comportamenti che ci qualificano, che dicono chi siamo. Dio è il custode del suo sogno in noi, dei desideri che Egli ha messo nel nostro cuore e che si sono trasformati in realtà vissuta.
Sempre mi commuove l’episodio in cui Dio impedisce al faraone di toccare la moglie di Abramo, che questi ha fatto passare per sua sorella per non esserne ucciso. “Non toccare la moglie del mio profeta” gli dice. Abramo per Lui continua ad essere il suo profeta, anche se si è mostrato un opportunista e un vigliacco.

“Che diremo dunque? Continueremo a rimanere nel peccato perché abbondi la grazia?” (Rm 6, 1), chiede San Paolo. Che tentazione approfittarci della misericordia di Dio! E’ comunque un Dio ferito dal male che ci siamo fatti e che abbiamo fatto ad altri quello che ci usa misericordia. La misericordia ci ridà in mano un avvenire, ma non cancella le conseguenze sul presente del nostro passato. Dio ci dà una mano per rialzarci, ma riprendiamo il cammino feriti dalla caduta.

Ci chiediamo infine: qual è il nome del demone che ci gioca per impedirci di rialzarci dopo che siamo caduti? L’orgoglio. Non sopportiamo di essere meno che forti, impassibili, vittoriosi sulle tentazioni. Vogliamo meritare l’amore di Dio. E l’alternativa è solo lo schifo di noi stessi e il conseguente buttarci via. Ci sentiamo umiliati dalla sua misericordia! Ma forse è proprio di questo che abbiamo bisogno: un po’ di umiliazione che ci metta in umiltà di fronte alla vita, per accoglierla assieme a Lui, nella Sua verità, anziché cercare di dominarla e distorcerla con la nostra.
Ecco allora che la cosa da fare non è impegnarci a essere più forti, ma donargli la nostra fragilità e sperare nella sua grazia. Anche la primula non si impegna al fiore, ma attende la carezza tiepida del primo sole. Sarà allora Lui in noi la nostra forza: “…Senza di me non potete far nulla” (Gv 15, 5).


Michele Bortignon

4/05/2016

Misericordia è un abbraccio?

L’altra sera tornavo a casa a piedi. Approfittando del silenzio, rotto solo dal rumore dei miei passi, ho colto l’occasione per immaginarmi la misericordia di Dio.
In quest’anno così ricco della parola misericordia, ho desiderato sentirla in modo quasi tangibile questa benedetta parola. Questo per non farla restare solo un suono nella mente, ma per trasformarla in un’esperienza del cuore. E come non concretizzarla se non in un abbraccio? E precisamente nell’abbraccio di Dio quando lo incontrerò: pienezza di tutti gli abbracci dati e ricevuti in questa vita. Un abbraccio, anzi, l’Abbraccio che farà tacere tante mie inutili parole che tenteranno di farsi strada in me: “scusa, mi spiace, ho sbagliato, ho peccato, abbi pietà di me,….”; no, non vorrà sentire nessuna scusa: non servono giustificazioni a Dio.
Come saranno le braccia di Dio per me? Dio ama tutti e tutti perdona; il suo abbraccio allora sarà uguale per tutti? Ci accoglierà tutti allo stesso modo? Io non lo voglio un abbraccio in serie, io voglio il mio abbraccio: solo mio. Voglio sentire l’abbraccio di cui avrò bisogno e che mi scalderà il cuore.
Ascoltando i miei passi nel silenzio della sera, mi sono tornate alla mente alcune strofe di “Preghiera in gennaio” bellissima canzone di Fabrizio De André scritta subito dopo il suicidio dell’amico Luigi Tenco.
 “Signori benpensanti spero non vi dispiaccia se in cielo, in mezzo ai Santi Dio, fra le sue braccia soffocherà il singhiozzo di quelle labbra smorte...”
Sì, Dio non ci abbraccerà tutti allo stesso modo, ma ognuno riceverà il suo abbraccio, quello che andrà a scaldare e curare la sua parte di cuore più fredda o ferita, più  bisognosa di calore o di cure. Sentiremo sciogliersi tensioni, nodi, dubbi o timori e un pianto liberatorio scenderà dai nostri occhi a bagnare la guancia di Dio. Sentiremo le nostre ferite risanarsi, sentiremo il nostro cuore stingersi in una morsa d’amore da far quasi male. E i più distanti ora, i più bistrattati e abbandonati, quelli che si sentono così sbagliati e persi da non aver nemmeno il coraggio di chiedere, saranno quelli abbracciati e coccolati per primi, più a lungo e intensamente.
E io allora? Dove sarò io? Dove sono qui? Dove sono ora? Faccio parte dei “signori benpensanti” di De André?
Gustare e capire la misericordia è sentire tutta la mia distanza, la mia piccolezza, la mia miseria; significa caricarmi tutto il mio debito sulle spalle, sentirlo pesante come un macigno e poi rendermi conto che mi è condonato, cancellato per sempre: mai più ricordato.
Solo capendo la misura della mia distanza posso godere del dono della sua vicinanza. È per questo che chiedo di non essere anestetizzata dalla società del “così fan tutti”, del “che c’è di male”; il peso dei miei peccati lo voglio sentire tutto, per gustare tutto il perdono. E desidero sentirlo giorno dopo giorno questo peso proprio per gustare, giorno dopo giorno, la misericordia.
Alla fine tra le “braccia di Dio” ci sarà un posto unico e speciale per tutti coloro che saranno riusciti, durante tutta la loro vita, o per un tratto di essa, o anche solo nell’ultimo istante, ad accettare e riconoscere l’Amore.

O forse… forse la misericordia va oltre, forse è ancora più in là: forse… abbraccerà anche chi non riconoscerà l’Amore?

                                                                                 Maria Rosa Brian 

3/03/2016

Un altro modo è possibile

«Sentite Starback: tutti gli oggetti visibili non sono altro che maschere di cartapesta. Alcuni inscrutabili eppur coerenti fattori determinano la formazione dei loro lineamenti. La balena bianca me lo insegna: essa è un mostro. Eppure non è che una maschera. E’ ciò che si cela dietro quella maschera che io odio sopra tutto: i malefici arcani che hanno sempre afflitto e terrorizzato l’uomo dall’origine dei tempi, i mali che prostrano e mutilano la nostra razza non uccidendoci decisamente, ma lasciandoci con la metà di un polmone o la metà del cuore».
Il discorso del capitano Achab, in “Moby Dick” di Herman Melville, spoglia del suo travestimento quella forza oscura che vuole ricondurre tutto al male, in contrapposizione con lo Spirito Santo, che tutto vuole invece ricapitolare in Cristo.
Come ci riesce?
Moby Dick, la balena grande come un’isola, attira i balenieri col miraggio di un guadagno ingente e della gloria ottenuta nell’affrontare una così ardua impresa. La sete di avere e di apparire si congiungono poi nella ricerca del piacevole brivido del potere.
Succede anche a noi, nella nostra forse meno avventurosa vita: a tutto si è disposti pur di provare queste emozioni che ti fanno sentire diverso, speciale, vittorioso sull’annullamento con cui la banalità del vivere sembra schiacciare tutti. Il più delle volte, infatti, parti a cercare la balena bianca spinto al largo dalla delusione della vita, che non sta andando come volevi: ti senti tradito, umiliato, senza prospettive. E il mare ti sembra una promessa. Ma il prezzo da pagare è il morso di Moby Dick: non ti uccide subito - non sempre -, ma, mentre sei drogato di eccitazione nel sentirti qualcosa o qualcuno, ti fa in effetti vivere “con la metà di un polmone o la metà del cuore”. Non sei più interamente te stesso, non quello che la tua Vita con gli altri ti chiama a essere, ma ti stai trasformando in qualcos’altro, a tua volta agente di un male che, come un buco nero, tutto assorbe in sé.
La ricerca ossessiva di ciò che procura queste emozioni è il tratto caratteristico di chi più non si appartiene completamente: la compulsione ad avere sempre di più, ad apparire sempre di più, a potere sempre di più perché niente sembra abbastanza, niente soddisfa quel vuoto che, anzi, sembra diventare sempre più grande, mentre ti pungola un senso di ingiustizia nel vedere quanto gli altri hanno e tu non hai, anche se non ne hai assolutamente bisogno. E non ti accorgi che l’essenziale è gratis.

Come salvarsi dall’inseguire la propria balena? Come evitare il rischio di lasciarsi catturare da un miraggio? Come sfuggire a quel morso che fa vivere a metà? Gesù dice di essere venuto per darci la vita e per darcela in abbondanza (Gv 10, 10), per farci gustare quella misura traboccante che Lui ci versa in grembo (Lc 6, 38). Il fatto è che, quando stiamo male, questa fede vacilla e la caccia a Moby Dick riprende, apparendoci l’unica concreta, con risultati a portata di mano, sostenuta dal consenso di chi ci vive attorno. Anche Gesù se ne rende conto: conosce bene la nostra tentazione e pure il suo esito di morte. Per questo, all’inizio della sua missione, proclama l’alternativa il cui esito è la Vita: le beatitudini. Finora le abbiamo lette come rivolte a persone diverse; proviamo invece a sentirle rivolte a noi quando siamo messi in crisi da una situazione che ci fa soffrire: un’apertura di prospettive diverse, appartenenti a un piano di realtà in cui possiamo entrare per fede se ci diamo la possibilità di ascoltare senza difenderci quel “Ma io vi dico…” di Gesù. Un po’ come se Egli ci sfidasse a seguirlo su un piano più alto, schiodandoci dai nostri soliti modi di reagire: «Se vuoi recuperare la tua serenità, la tua gioia di vivere, ti dico…

Beati i poveri in spirito
Prova qualcosa di nuovo, prova l’assurdo della gratuità e del fare del bene a chi ti maltratta. Solo se fai qualcosa di diverso otterrai qualcosa di diverso.

Beati gli afflitti
Credi all’impossibile speranza che a tratti ti sfiora: puoi uscirne, perché Qualcuno non ti lascia solo.

Beati i miti
Prova a non lasciarti trasportare dalla rabbia, dalla voglia di ricambiare il male ricevuto. Ci sono altre vie per ottenere; e, a volte, proprio non ottenere ciò che vuoi ti fa entrare nell’inatteso di cui avevi bisogno.

Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia
Tu vuoi giustizia; ma attento che la prima giustizia è la tua correttezza.

Beati i misericordiosi
Non dimenticare che la vita è estremamente complessa e tu la osservi da una ristrettissima angolatura. Cerca allora di dare fiducia, di scoprire la motivazione nascosta nel comportamento nell’altro, magari buona, magari dolorosamente condizionata da tanta paura e sofferenza. Com’è difficile giudicare!

Beati i puri di cuore
Se ti stacchi un attimo dalla tua, di paura, dalla tua, di sofferenza, vedrai Dio all’opera nel bene che tenta di raggiungere e te e l’altro.

      Beati gli operatori di pace
Lasciati toccare, lasciati scaldare, lasciati portare. Un altro modo è possibile: si chiama pace.

Beati i perseguitati
Un altro modo è un altro mondo. Se ci entri, saprai che qui ti aspettavo e la vita te ne sta aprendo la porta proprio attraverso lo sconvolgimento che ora stai vivendo. Guarda oltre e mi vedrai.

Le beatitudini sono certo un aiuto per tornare a camminare sulla terraferma, ma pur sempre una ricetta, atta a sostenere i primi passi in quella direzione. Non basta più quando Moby Dick torna a impadronirsi del tuo animo, bianco fantasma in una notte di tenebra. In quel momento, qualcosa lo può solo la fede: quel tuo aggrapparti a brandelli di coscienza e di nostalgia di Dio che ti consente magari solo di tenere la testa fuori dalle onde che tentano di sommergerti. Ma, intanto, con questo respiri; e senti che, in quello strano modo, la Vita, Dio, vogliono che tu Viva e hanno fiducia che ce la farai.


Michele Bortignon

2/11/2016

Il divisore, l'accusatore e il difensore...

Se vogliamo comprendere la misericordia di Dio, prima dobbiamo conoscere come agisce lo spirito del male.
Questo si presenta sotto due forme: il diavolo e il satana. Come dice il nome, il diavolo (dal greco dia-ballo) è il divisore, il frantumatore. Suo compito è separarci da Dio facendo andare in frantumi la nostra vita. Non va da tutti: alcuni hanno già ridotto da soli la propria vita ad un cumulo di rottami! Si concentra dunque su quelli che stanno facendo del bene, la cui vita sta crescendo in Dio. E’ qui il pericolo per lui: queste persone stanno svolgendo un’azione contraria alla sua: ricompongono i frammenti di vite spezzate ridando solidità, coraggio, voglia di Vivere. Il diavolo, dunque, punta direttamente ai loro bisogni, trasformandoli in pulsioni ossessive. A questo punto è inevitabile, nella persona tentata, uno sbandamento emozionale che spesso trascina anche comportamenti “fuori stile”. E’ qui che entra in scena il satana. Accanto a questi comportamenti “fuori stile”, la persona ne ha anche altri con cui, come può, cerca di resistere alla tentazione, di tornare in carreggiata. Ma il satana, l’ “accusatore”, evidenzia solo i primi, scatenando devastanti sensi di colpa e di indegnità, con cui, ancora una volta, cerca di separare la persona dalla relazione con Dio.
E Dio, nel frattempo, cosa fa?
In un primo tempo non fa proprio nulla. Lascia che la tentazione prima e la vergogna poi facciano il loro corso. Non ci priva di un’esperienza di vita che può insegnarci qualcosa! Con la vita, Egli ci ha affidato il compito di crescere fino alla piena statura del Cristo, nel quale ci ha creati. Poi, quando la caduta ci ha ben piantati nell’ “humilitas”, ci ha dato cioè la natura dell’ “humus” (fatto di scorie di ciò che un tempo era stato vivo, ma, per ciò stesso, fonte di nutrimento per nuova vita), ribatte all’azione del diavolo come “Consolatore”, dicendoci «Ti ho sempre voluto bene, te ne voglio ora e te ne vorrò sempre. Sei mio figlio, che amo»; ribatte quindi all’azione del satana come “Paraclito”, ossia come avvocato difensore, dicendoci «Ho fiducia in te» e ci mostra a noi stessi degni di fiducia evidenziando quegli altri comportamenti, a cui non avevamo dato peso, con i quali abbiamo cercato di arginare la tentazione. E con la carezza dolce del suo sguardo fa crescere questi e ne fa sbocciare altri.

Allora udii una gran voce nel cielo che diceva:
Ora si è compiuta
la salvezza, la forza e il regno del nostro Dio
e la potenza del suo Cristo,
poiché è stato precipitato l'accusatore dei nostri fratelli,
colui che li accusava davanti al nostro Dio giorno e notte (Ap 12,10).

Michele Bortignon

1/11/2016

Che cos’è e come vivere la misericordia di Dio?

La domanda mi si è posta con evidenza in relazione al “Giubileo della misericordia” indetto da Papa Francesco. Non nascondo un certo disagio nell’averlo sentito associare all’ottenimento dell’indulgenza. Ricordiamo la teoria: la confessione rimette la colpa ma non cancella la pena, che dovrà comunque essere scontata nel purgatorio, a meno di un’indulgenza concessa dalla Chiesa, che compensa le colpe dei peccatori con i meriti dei santi. A parte il legalismo della questione, difficile da giustificare a livello umano, quel che non quadra è la considerazione del Purgatorio come esperienza da sfuggire, e… da sfuggire per grazia.
Se il purgatorio è una punizione, come si concilia con la bontà di Dio? Se viene da un Dio buono, il purgatorio dev’essere un luogo di grazia, non di punizione. Voglio allora pensarlo come un’esperienza di crescita in una sofferenza avvolta dalla tenerezza di Dio: mi sarà dato di rivivere ogni stupidaggine che ho fatto sentendomi sprofondare dalla vergogna e attanagliare dal dolore che nascono dal sentirmele spiegate dall’Amore stesso, che da esse ho allontanato; ma, nel farlo, Lui mi terrà la mano e mi guarderà negli occhi, a dirmi che comunque mi ha sempre voluto bene e ha sempre avuto fiducia in me.
Perché dovrei allora privarmi di questa esperienza di Verità, che è chiarezza nella tenerezza e nel perdono? La mia fetta di purgatorio la voglio, l’aspetto e la desidero. E, al termine di questo incontro, sarò con Lui, con il mio corpo spirituale segnato da ferite e brutture trasfigurate in luce, come da solo mai avrei saputo fare; ora davvero rivestito della misericordia di Dio. Non è stato così anche di Cristo nelle apparizioni dopo la risurrezione? Le ferite che il male gli aveva inferto erano ben visibili; nel suo caso luminose per un amore offerto; nel nostro, lo saranno per la misericordia ricevuta.
Ma c’è un modo in cui credo si possa vivere questo purgatorio fin d’ora: facendosi aiutare a vedere la propria vita da un altro punto di vista, con gli occhi e il cuore di Dio. E non è questo il compito dell’accompagnamento spirituale? Abbiamo, infatti, bisogno di provare a noi stessi che non siamo la stupidaggine che abbiamo fatto, ma la nostra vita è orientata in altra direzione: è ciò che l’accompagnatore ci aiuta a fare. Non solo. La Chiesa aiuta questa nostra “cristificazione” anche mettendo a disposizione l’esperienza che di Dio hanno accumulato i santi. Santo non è chi non ha peccato mai, ma chi ha avuto la forza ogni volta che è caduto di rialzarsi. È da questa loro forza e certezza di trovare il perdono incondizionato di Dio che possiamo attingere. La loro storia funge da ispirazione per un cammino diverso rispetto a quello che ci ha portato a peccare. Entra così in gioco la “comunione dei santi”, per cui chi è più vicino a Dio aiuta il procedere di chi vuole camminargli accanto.
Reinterpretata in questo modo, possiamo riaccogliere nel nostro pensiero e nella nostra sensibilità la teologia sull’indulgenza.
Ma vediamo ora di enucleare dal Vangelo, nostro punto di riferimento più delle filosofie degli uomini, qual è la potenza trasformante della misericordia di Dio.
E qui cedo la penna a MariaRosa.

Non so che cosa sarà di me dopo la morte, dove sarò, come sarò: so che il mio corpo fisico, almeno per ora, non mi seguirà. E non so quale volto di Dio incontrerò; mi è stato mostrato in molti modi: giudice, misericordioso, padre, padrone…
Ma che cosa so veramente di Dio? Di Dio conosco ciò che di Lui ci ha rivelato Gesù: “Chi ha visto me ha visto il Padre” (Gv 14,9), e ancora: “Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me” (Gv 14,6).
Dio, fatto uomo in Gesù di Nazareth, parla le parole comprensibili all’uomo e si lascia spiegare da immagini quotidiane e familiari all’uomo. E allora com’è il Dio rivelato da Gesù? È come un padre, e che padre! Dio è, anche e non solo, il padre misericordioso della parabola di Luca (Lc 15,11-32). Dio è sempre quel padre che scruta e aspetta il mio ritorno. Dio mi corre incontro quando da lontano mi vede tornare e non mi lascia neanche il tempo di manifestare il mio pentimento. Dio mi ama così come sono: è dal suo amore incondizionato che sboccia il mio; e il suo perdono smuove quel sano senso di dispiacere per non aver colto prima il suo amore o per non averlo scelto prima.
Già qui in questa vita posso vivere il mio inferno, purgatorio e paradiso. Quando non amo, semplicemente scelgo l’inferno nel mio cuore; quando scelgo di amare, sono catapultata nel paradiso e il purgatorio è quel senso di disagio e dispiacere che provo nell’aver tradito l’Amore. La scelta dove sostare è mia; semplicemente quello che ho chiamato purgatorio serve a darmi un’idea delle dimensioni del perdono.
Che misure ha la misericordia? Quale altezza, quale profondità?
Se Dio è Amore, come dice Giovanni -“Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore”(1Gv 4,8)-, non può che amare e l’amore è misericordia infinita. Qualcuno ha detto che la misura dell’amore è amare senza misura. Questo “senza misura” si chiama Misericordia.
Mi piace l'immagine di un Dio Padre che mi aspetta ogni volta che cambio strada. Amo questa Misericordia di Dio che non ha fretta, che è paziente, che mi lascia il tempo che mi serve, aspettando da lontano il mio ritorno pronta a far festa: “Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato. E cominciarono a far festa” (Lc 15,23-24). E ancora: “Io vi dico: così vi sarà gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte, più che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di conversione” (Lc 15,7).
Questa Misericordia non è "tontaggine” di Dio, nel senso che tanto Dio perdona tutto, no: la Misericordia sa cogliere il momento opportuno, il tempo propizio che lei sa. Penso che ognuno di noi ha un momento suo personale per gustare il perdono di Dio: Lui mi perdona sempre, ma non sempre io sono pronta a capirne e assaporarne la portata. La conversione è proprio questo: capire interiormente il perdono, gustare nel profondo del cuore la Misericordia, assaporarla, piangere dalla gioia e dallo stupore per tanta grazia.
Non è questo dolore per non riuscire a contenere così tanto amore a farmene comprendere la misura? È come quando troppa luce improvvisa fa male agli occhi e quel male mi fa capire che è tanta; o come quando troppa aria rarefatta mi fa mancare il fiato e quella mancanza di fiato mi fa capire che è buona. Ecco: il purgatorio è questo dolore che mi fa capire il troppo perdono.
Non so cosa sarà di me dopo la mia morte, ma so cosa vorrei fosse della mia vita qui e ora, in questo prezioso e bellissimo tempo che mi resta da vivere: riuscire a cogliere angoli di paradiso aprendo porte di purgatorio che mi fanno uscire da stanze buie di inferno.


Michele Bortignon e Maria Rosa Brian